I social rendono più cattivi? Discorso d’odio e altri affanni del nostro secolo

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Politici che schiaffeggiano giornalisti, cantanti coperti da insulti nella rete per aver preso una posizione favorevole ai vaccini, il ragazzo che intima all’insegnante: “E’ un 6 e non farmi arrabbiare…. qui comando io, inginocchiati!”. Insegnanti che a loro volta gridano ai poliziotti: “Vigliacchi, dovete morire”. Di questi tempi è difficile resistere alla tentazione di definire il discorso d’odio come “il male del secolo”.

mary-beard2Cediamo sempre più facilmente all’ira incontrollata, nella vita di tutti i giorni e soprattutto online. Ha fatto molto discutere nei mesi scorsi il caso di Mary Beard, professoressa a Cambridge, travolta da una valanga di insulti per aver espresso su Twitter un’opinione in merito all’operato di una nota associazione non profit ad Haiti. Chiunque abbia provato a difenderla è stato raggiunto dalla medesima ondata di odio. Più recentemente insulti e auspici di morte sono stati rivolti al nostro Presidente della Repubblica Emerito, Giorgio Napolitano, vittima di un malore e di un intervento chirurgico al cuore.

Ma l’odio non corre solo online. Pochi giorni fa, su un vagone della metropolitana, un’anziana signora viene rimproverata dalla badante che l’accompagna, perché il peso degli anni non le ha consentito di essere abbastanza celere, nella decisione e nel passo, da scendere alla fermata prestabilita. Si chiudono le porte, la badante continua a borbottare, con voce secca. Basta un commento ad alta voce (“Non dovrebbe trattarla così”) perché divampi la folla rabbiosa. Si sente di tutto, in un moltiplicarsi virale di urla e insulti. Ad un “torna nel tuo Paese”, sono seguiti “starebbe meglio sola la vecchia”, “vergogna”, per arrivare a “fai schifo” e “dovresti morire!”, da parte di un gruppetto di ragazzi che minacciano di andare a picchiarla. La badante, che non è italiana, accenna qualche parola e abbassa la testa davanti a questo processo metropolitano, unanime nella condanna quanto nella violenza. Come accade anche online, nessuno degli hater si rivolge a lei o la guarda, i più sono distanti, qualcuno guarda fisso avanti a sé, altri si rivolgono ai vicini. Arriva la fermata e le porte si aprono, lasciando scendere la badante e l’anziana, insieme ad un certo numero di urlatori. “La violenza pretende di essere la soluzione di un problema. In realtà è il problema”, scrive Friedrich Halker.

mary-beard3Se abbandonarsi al discorso d’odio è facile, internet lo semplifica ulteriormente: ha esteso il gruppo di osservatori, moltiplicato i pretesti, ridotto le occasioni di punizione, reso più blanda la riprovazione sociale, introdotto l’anonimato, accorciato i tempi di risposta, privato della possibilità di vedere negli occhi e nel volto dell’altro la reazione alla nostra violenza. Non sorprende che Beard, ad un certo punto della sua vicenda, abbia postato una sua foto in lacrime.

Sebbene il fenomeno sia complesso da monitorare, alcuni dati evidenziano come anche nel nostro Paese donne e stranieri siano tra i principali destinatari dell’hate speech. Secondo l’ultima ricerca EU Kids Online (realizzata da OssCom per Miur e Parole O_Stili), quasi un terzo degli adolescenti italiani intervistati (31%) ha visto online  rivolti a singoli individui o gruppi di persone, attaccati per il colore della pelle, la nazionalità̀ o la religione. In oltre la metà dei casi (58%), gli adolescenti ammettono di non aver fatto nulla per difendere le vittime. La fotografia non è meno allarmante di quella scattata nel 2017 dal prestigioso Pew Research Center su un campione rappresentativo di 4,248 cittadini americani: il 41% è stato vittima diretta di hate speech, mentre il 66% ha assistito a violenze online rivolte ad altri.

Insomma, il mezzo tecnologico amplifica meccanismi che agiscono anche offline e che ci aiutano a capire come sia possibile che anche cittadini (apparentemente) al di sopra di ogni sospetto possano trasformarsi in odiatori digitali. Intervengono processi di categorizzazione di gruppo (noi-voi) che si nutrono di stereotipi e pregiudizi come il genere o la cittadinanza (se la badante non fosse stata straniera la rabbia si sarebbe espressa con medesima veemenza?), dinamiche di esclusione, polarizzazione delle idee espresse (che in gruppo diventano estreme), deumanizzazione delle vittime e deresponsabilizzazione sociale.

cyberL’esclusione morale di un soggetto che viola una norma sociale, poi, presenta risvolti particolarmente interessanti. Molly Crockett, dello Psychology Lab di Oxford, ha osservato come scatenare il proprio odio online contro coloro che infrangano una norma – ad esempio, “non si trattano male gli anziani” o “non ci si comporta da bulli” – trovi immediatamente un forte consenso. La reputazione dell’odiatore-giustiziere (digitale e non) migliora: non solo non si vergogna, ma sente di essere nel giusto e di fare del bene, rivendicando il diritto ad esprimere un giudizio condiviso da altri.

Se poi queste “ricompense” ancora non fossero sufficienti, ne abbiamo delle altre: uno studio del 2013 ha mostrato che quando puniamo severamente qualcuno che ha trasgredito una norma morale, le aree cerebrali della ricompensa si attivano. Odiamo ma ci sentiamo bene e questo accresce la probabilità di comportarci nello stesso modo in futuro. Infine, quella stessa folla digitale nella quale l’odiatore può nascondersi, contribuirà anche a diffondere velocemente i suoi messaggi: giudizi morali e contenuti emotivi, infatti, aumentano del 20% la probabilità che un contenuto online sia ricondiviso.

Cosa succede se per difendere una vittima finiamo per adottare una strategia che parla lo stesso linguaggio di chi intendiamo contrastare, ossia quello della violenza? I gruppi che si accaniscono sui social contro il bullo replicano quanto combattono e contraddicono quanto affermano, ossia il diritto al rispetto reciproco, al dialogo, all’umanità, alla comprensione (in quanto bambino, adolescente, minorenne ed essere umano, che è cosa ben diversa dal sostenere che il suo comportamento non debba essere punito). Perdonate il gioco di parole, ma la violenza è meno violenta se è in difesa di qualcuno?

bullying-679274_960_720I social dovrebbero essere i primi a punire questi comportamenti. Obbligati a rimuovere certi contenuti, non sempre purtroppo riescono ad intervenire nei tempi previsti dalla legge. A volte, poi, la rimozione non è possibile. Provate a segnalare un video virale nel quale un gruppo di minorenni insulti pesantemente un ragazzino accusato di bullismo: scoprirete che in alcuni casi non potrà essere rimosso, perché “in fondo, condanna il bullismo”.

Le soluzioni tecnologiche a disposizione dei social per contrastare l’hate speech destano un certo interesse. Alla Cornell University stanno studiando un algoritmo che sembra predire con un’accuratezza dell’80% il comportamento violento online: se fosse adottato dai social, all’hater in questione potrebbe essere automaticamente applicato un delay che costringe a postare più lentamente.

cyber2Ci sono poi i bot, abbreviazione di “robot”, ossia programmi che imitano la comunicazione umana e che, tra le altre cose, possono rispondere ai messaggi in modo automatico. Si sta studiando come utilizzarli per innalzare i costi reputazionali dell’hate speech: secondo un recente esperimento, i discorsi d’odio razzista rivolti a persone di colore si riducono significativamente all’emissione di una risposta automatica da parte di un profilo bot. Basta un semplice: “Hey, ricordati che dall’altra parte ci sono persone reali. Soffrono se le tormenti con questo genere di linguaggio”. Un principio non nuovo in psicologia sociale: è sufficiente che qualcuno esprima il proprio dissenso per accrescere la probabilità che altri trovino il coraggio di farlo. “Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi – diceva Martin Luther King – è l’indifferenza dei buoni”.

Quanto alle soluzioni a portata di sensibilità umana, ovviamente le più importanti, ciascuno di noi può fare la sua parte. Modelliamo i comportamenti altrui abbassando i toni, contrastiamo la deumanizzazione ricordando che dall’altra parte c’è una persona con le sue emozioni, evitiamo di cedere alla deresponsabilizzazione (“ci penserà qualcun altro”) e diamo man forte a chiunque contrasti l’odio nella rete. Insegniamo tutto questo ai ragazzi, stimolando il pensiero critico e la capacità di argomentare: perché, come ricorda Deleuze, “la violenza è ciò che non parla”.  Domandiamoci, infine, se la violenza sia l’unica alternativa possibile all’indifferenza. Il mio pensiero è riassunto in queste parole:

“Mi oppongo alla violenza perché quando sembra fare del bene, il bene è solo temporaneo; il male che fa è invece permanente” (Mahatma Gandhi)