A volte i giudizi possono avere la forma di una domanda. Un quesito semplice. Banale quasi. E che tuttavia, in tre semplici parole, racchiude il pensiero di chi ancora crede che le donne che subiscono violenza “un po’ se la sono cercata”. “Com’eri vestita?” è proprio questo: una non domanda che trasforma la vittima in colpevole, e la inchioda all’idea che la responsabilità di quanto le è successo sia prima di tutto sua. Sua e del suo pigiama, del suo prendisole, del costume da bagno, della felpa larga, e persino dei pantaloncini da corsa e della maglietta comoda che quel malaugurato giorno aveva scelto di indossare.
Contro questo pensiero, fin troppo comune, il centro antiviolenza di Milano Cerchi d’Acqua ha organizzato la mostra “Com’eri vestita”: un’esposizione di fotografie nelle quali sono immortalati gli abiti indossati da alcune donne che si sono rivolte al centro, e che sarà esposta il 12 e 13 maggio al museo Mudec in occasione del Festival internazionale di poesia di Milano. A caratterizzare la mostra anche il fatto che ogni immagine sarà accompagnata da un pensiero o da un ricordo della vittima che prende quasi la forma di una breve poesia, e che punta a mettere in luce come tra violenza e abbigliamento non ci sia alcuna correlazione.
L’intenzione delle organizzatrici è infatti quella di far scattare una riflessione e concentrare l’attenzione sulla vittima, mostrando attraverso gli abiti quanto quella domanda sia frutto di un pregiudizio e di una cultura sbagliata che riguarda troppo spesso anche chi le vittime di violenza dovrebbe aiutarle. “Siamo partite da questa domanda – spiega Silvana Milelli, consulente di accoglienza per donne maltrattare presso Cerchi d’Acqua – perché a rivolgerla alle donne abusate sono spesso le persone che dovrebbero invece assisterle come avvocati, giudici, assistenti sociali. Inoltre si tratta di un pensiero che anche inconsciamente continuano a fare molte persone convinte che dietro una violenza sessuale ci sia prima di tutto l’imprudenza della donna”.
Un pensiero che non riguarda solo gli italiani e le italiane ma che è diffuso anche in molti altri Paesi, primo fra tutti gli Stati Uniti dove per protestare contro le violenze nei campus universitari fu creata nel 2013 un’istallazione artistica chiamata “What I was wearing” da cui la mostra milanese ha preso spunto. “L’origine di tutto – spiega Milelli – è una poesia di Mary Simmerling che parla di questo pregiudizio e ne mette in luce l’assurdità dicendo che sarebbe bello se tutto fosse così semplice, se si potessero cioè evitare davvero gli stupri semplicemente cambiando vestiti”.
La realtà però è molto diversa, come hanno ricordato tra l’altro recenti casi di cronaca come quello delle due studentesse americane che lo scorso settembre hanno denunciato di essere state violentate da due carabinieri in servizio. “Quel processo e le domande che gli avvocati hanno rivolto alle studentesse (come quella in cui chiedevano loro se indossassero le mutande ndr.) hanno dimostrato – puntualizza Milelli – come sia cambiato davvero poco rispetto al famoso processo per stupro del 1979 quando l’idea era che una donna di buoni costumi non poteva essere di certo violentata”.
Chiedere perciò a una vittima di violenza “Com’eri vestita?” significa inchiodarla a un pregiudizio e aggiungere al suo dolore e alla sua paura anche un senso di vergogna e di colpa che in una società più giusta spetterebbe solo all’aggressore.