Facciamo un esperimento. Proviamo a chiedere a un avvocato che lavora nell’Unione europea se nel suo Stato esiste una legislazione contro le discriminazioni sulla base del genere, dell’età e dell’etnia nei luoghi di lavoro. La risposta sarà, nella quasi totalità dei casi, affermativa. Significa quindi che la discriminazione sul lavoro è stata azzerata grazie alle leggi? Non proprio. Se infatti chiediamo, agli stessi avvocati, se, per esempio, è accettabile richiedere un curriculum vitae con una foto del candidato, ci renderemo conto che le risposte iniziano a non essere così uniformi. Una parte dei legali risponderà che nel suo Paese questa richiesta viene considerata una potenziale discriminazione sulla base di canoni estetici e quindi non accettabile. Mentre un’altra parte risponderà che nel suo Stato, una richiesta di questo tipo è ritenuta più che lecita.
L’esperimento in questione è stato fatto davvero e dai suoi risultati è nata la survey “Discrimination at work”, realizzata dall’avvocato Sergio Barozzi e dall’avvocata Alessandra Rovescalli dello studio legale Lexellent. La ricerca – presentata il 3 marzo a Milano, nel corso del convegno annuale organizzato dalla law firm sulle Pari opportunità – ha messo in luce come, nonostante la presenza di leggi anti discriminatorie in quasi tutti i Paesi del mondo, quando si arriva ai casi concreti le risposte sono molto diverse e non sempre così attente alla tutela delle diversità.
“La ragione sta nel fatto che, la normativa anti discriminazione risente enormemente della sensibilità e della cultura che vige in un determinato Paese. Non bastano cioè le leggi a garantire che i lavoratori e le lavoratrici non vengano discriminati sulla base del loro aspetto, del loro genere, della loro età o del loro orientamento sessuale. Serve infatti qualcosa di più che risiede nella cultura di quello Stato e che non tutti i Paesi – compresi quelli con una legislazione apparentemente molto simile – hanno dimostrato di avere”, spiega l’avvocato Barozzi.
La ricerca di Lexellent ha coinvolto 28 Paesi del mondo che sono stati analizzati sulla base delle risposte date da avvocati giuslavoristi (che si occupano cioè di diritto del lavoro) ad alcuni quesiti in merito alla presenza di leggi che prevengano o impediscano le discriminazioni nei luoghi di lavoro sulla base del genere, dell’età, dell’orientamento sessuale, della religione o dell’aspetto fisico. “Siamo partiti dal generale per poi scendere nel particolare e ci siamo accorti che Nazioni con la stessa legislazione in tema di discriminazione, hanno però casi concreti molto diversi”. Una situazione che si verifica anche nel caso dei Paesi membri dell’Unione europea che su questi temi dovrebbero avere tutti leggi di derivazione comunitaria.
Nello specifico, dalla survey di Lexellent è emerso che il tema su cui c’è più sensibilità è quello dell’orientamento sessuale. “È emerso, infatti, che in quasi tutti i Paesi – eccetto tre – c’è una sensibilità molto avanzata, almeno dal punto di vista legislativo”. Non va altrettanto bene invece sul fronte delle discriminazioni legate al genere dei lavoratori. La ricerca mette, infatti in luce, che quasi tutti i Paesi sono sensibili all’argomento solo formalmente. “Quasi tutti i 28 Paesi analizzati – racconta Barozzi – hanno una legislazione che la impedisce. In realtà però sappiamo per esperienza che le cose non stanno così e che si tratta spesso di leggi che rimangono inapplicate o che vengono rispolverate in maniera estemporanea quando c’è la necessità di migliorare l’immagine di un’organizzazione.
A dimostrarlo sono le risposte alla domande “È accettabile, in una società di moda, pubblicare un annuncio di lavoro per assumerne uno giovane donna per svolgere attività di pubbliche relazioni?” e “È accettabile richiedere un curriculum vitae con una foto del candidato?”. “Alla prima domanda quasi tutti i Paesi hanno risposto “non è accettabile” e tuttavia alla seconda più della metà delle Nazioni oggetto della survey si sono espresse a favore della possibilità di avere curricula con foto, ammettendo considerare accettabili le valutazioni dei candidati sulla base delle qualità estetiche. “È come dire che formalmente siamo a posto, ma se andiamo a scavare più in profondità ci rendiamo conto che le cose non stanno davvero così”, commenta l’avvocato.
Se si sposta lo sguardo all’Italia, la survey mostra, come evidenzia Barozzi, “una dicotomia tra magistratura e società civile”. “In Italia – continua l’avvocato – la magistratura è molto disponibile su queste temi e tuttavia esiste un grande ritardo che ha origini culturali. Inoltre nel nostro Paese manca un contenzioso importante. Le cause che hanno come oggetto la discriminazione sul lavoro sono cioè molte meno rispetto a quelli che registriamo in Usa o in Gran Bretagna”.
Un altro tema indagato dalla ricerca è quello della discriminazione indiretta. “La discriminazione indiretta – spiega Barozzi – riguarda quei comportamenti o quelle azioni apparentemente neutri ma il cui risultato in realtà porta alla discriminazione di una o più categorie di lavoratori. Penso per esempio a un’organizzazione che decide di organizzare una convention aziendale in Svizzera, discriminando così i lavoratori non comunitari che in quel Paese non possono entrare. Su questo tema c’è ancora molta strada da fare in tutti i Paesi”.