“Ho indossato così tante maschere. Una con la mia famiglia, una con i miei amici eterosessuali, e una con i miei conoscenti gay. Vivevo nel terrore di essere arrestato, ucciso, rapinato o di cadere in disgrazia”. Sguardo fisso sulla telecamera e oggi lucidi, racconta così la scelta di abbandonare la sua nazione d’origine e fuggire nei Paesi Bassi, uno dei protagonisti di “In The Crossing” dell’artista colombiano Carlos Motta.
Si tratta di un progetto artistico – esposto allo Stedelijk Museum di Amsterdam – composto da 11 ritratti video di rifugiati LGBTQI provenienti da Egitto, Iran, Iraq, Marocco, Siria e Pakistan che raccontano delle loro vite prima e dopo la scelta di lasciare le proprie case e le proprie famiglie. A spingerli verso questa strada, la consapevolezza di vivere in Paesi e in culture dove la loro sessualità non sarebbe mai stata accettata. E dove, di conseguenza, avrebbero sempre rischiato di venire discriminati, esclusi, picchiati e persino uccisi a causa dell’omofobia e della trasfobia.
Un destino dal quale però molti di loro non sono sfuggiti nemmeno una volta giunti in Europa. Gli undici intervistati, raccontano infatti anche delle intimidazioni e degli abusi subiti nei campi profughi olandesi, mentre attendevano che la loro richiesta di asilo venisse accettata. Cosa tutt’altro che scontata.
Il riconoscimento dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere come motivo di persecuzione, e quindi di protezione, è relativamente recente. Risalgono infatti al 2008 e al 2012 le prime note dell’Agenzia Onu per i Rifugiati (Unhcr) su questo tema. Tuttavia, nonostante i progressi legislativi, il tema è ancora poco conosciuto e questo si riflette sull’incapacità delle autorità nazionali di tutelare davvero i richiedenti asilo LGBTQI. Come dimostrano i racconti delle persone intervistate da Motta, ancora oggi continuano ad essere esclusi dalla protezione internazionale persone bisessuali e, più in generale, chi non ricade precisamente negli stereotipi delle persone LBGTQI. Sì perché, purtroppo, è ancora di stereotipi che si parla (come spiega molto bene questo articolo di Luna Lara Liboni pubblicato su Open Migration).
Eppure stiamo parlando di un numero di persone tutt’altro che insignificante. Una stima realizzata nel 2011 nella ricerca Fleeing Homophobia, parla di circa 10mila domande d’asilo all’anno legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere. Tuttavia, mancando dati ufficiali, si può ipotizzare che si tratti di numeri ben più alti. Anche perché molte persone tendono a nascondere il fatto di essere Lgbti.
Uno degli intervistati da Motta, racconta, per esempio, che in Iran continuavano a chiedergli: “se fossi un ragazzo o una ragazza. Ho capito in quel momento che avrei dovuto lasciare il Paese perché lì non sarei mai stato libero”. Ed è proprio inseguendo quell’idea (perché a volte purtroppo è solo di un’idea che si tratta) di libertà che questi 11 uomini e donne hanno affrontato pericolosi viaggi per mare e per terra, rischiando la vita, persino nei luoghi, come la tanto agognata Europa, che avrebbe dovuto proteggerli.
Se doveste capitare ad Amsterdam nelle prossime settimane, vi consiglio di non perdervi i loro visi e le loro storie. Il lavoro di Carlos Motta sarà esposto allo Stedelijk fino al 21 gennaio.