«Soltanto se ci si sente a casa dentro se stessi è possibile sentirsi a casa in un Paese straniero»: queste le parole con cui Bettina Schuler illustra le ragioni che nel 2014 l’hanno spinta ad attivare lezioni di yoga per donne rifugiate a Berlino e nel 2016 a fondare citizen2be, un’associazione non profit volta ad assistere i nuovi arrivati nel processo di integrazione in Germania. Scrittrice, giornalista e istruttrice di yoga di professione, Bettina concepisce questa disciplina come una terapia del trauma, ispirandosi al metodo sviluppato dall’americano David Emerson, il fondatore del Trauma Center di Brookline in Massachusetts. «Come possiamo pretendere un’immediata integrazione da chi è dovuto fuggire dal proprio Paese, abbandonando la propria vita e in molti casi i propri cari per venire catapultato in un mondo completamente estraneo? Offrire cibo e vestiario non basta. Dobbiamo donare il nostro tempo perché l’integrazione è un processo lungo e complesso, specialmente se associato a traumi come la fuga, la guerra e l’abbandono. Attraverso lo yoga aiuto le mie alunne a sviluppare un solido rapporto con il proprio corpo affinché questo diventi la prima casa della loro anima, una roccaforte inattaccabile» così la fondatrice di citizen2be.
Era il 2014 quando Bettina ha deciso di proporre lezioni di yoga a un centro per richiedenti asilo a Berlino: «Dopo aver visto le strazianti immagini dei migranti che cercavano di raggiungere l’Europa, mi sono sentita in dovere di intervenire e di fare qualcosa nel mio piccolo. Ho pensato a ciò di cui sono capace: scrivere e insegnare yoga. Avrei potuto cimentarmi nell’insegnamento del tedesco, ma sono un tipo troppo impaziente. Così la scelta è ricaduta sullo yoga. La domenica ho preso la decisione, il lunedì ho contattato il centro e il mercoledì ero già sul posto. A volte fare qualcosa di concreto è molto più semplice di quanto si pensi».
Alla vigilia della crisi migratoria erano ancora scarse le iniziative a favore di rifugiati e richiedenti asilo a Berlino: «In pochi si interessavano della problematica. Anche per questo la mia proposta è stata subito accolta e supportata calorosamente. Grazie a un appello su Facebook sono riuscita a recuperare dei materassini per le lezioni e sebbene fossi abbastanza impreparata, mi sono buttata a capofitto in questa esperienza. La decisione di rivolgermi esclusivamente a un pubblico femminile è venuta da sé: ai primi due incontri aperti a tutti si sono presentate soltanto donne musulmane che indossavano l’hijab (il corto velo femminile appartenente alla tradizione islamica ndr). Così ho realizzato che se ci fossero stati uomini le partecipanti avrebbero potuto sentirsi a disagio. Ho quindi deciso di riservare i corsi solo alle donne. Oggi la maggioranza delle alunne che frequenta i miei corsi viene dalla Siria, ma chiunque è la benvenuta».
Anche la teorizzazione dello yoga come terapia del trauma è stato un processo di studio e approfondimento graduale tutt’oggi in costante divenire: «Molte donne che frequentano le mie lezioni soffrono di disturbi del sonno. Alle spalle hanno esperienze di fuga, di lontananza dalla famiglia, di insicurezza. È capitato che alla mia domanda “come stai?” qualcuna rispondesse: “Oggi bene, ma non posso sapere come starò domani”. Ad altre sono venute le lacrime agli occhi durante le lezioni. Per molte di loro lo yoga era all’inizio un semplice diversivo, l’unico momento della settimana in cui percepivano attenzione da parte di terzi e l’unica occasione in cui entravano in contatto con la società tedesca e la città. Ma nelle alunne che sono con me da più tempo oggi vedo di fatto un netto miglioramento: lo yoga le ha aiutate a diventare più consapevoli di se stesse e a entrare in relazione con il proprio corpo attraverso la respirazione, gli esercizi muscolari, la meditazione e l’impiego di suoni e profumi. Questo è la conferma della teoria di Emerson, secondo cui con lo yoga è possibile sciogliere i trigger point, ovvero i traumi presenti nel corpo. A questo metodo si deve necessariamente associare il lavoro di uno psicoterapeuta che agisce invece sui traumi nella mente. Per questo nel 2018 avvieremo una nuova campagna di crowdfunding al fine di essere in grado di retribuire uno psicoterapeuta che integri il lavoro sul trauma che già facciamo attraverso yoga e naturopatia. È fondamentale che la società si occupi subito dei traumi dei nuovi arrivati per impedire che vengano tramandati alle generazioni future costringendoci ad affrontarli tra 50 anni. Purtroppo sono ancora troppo poche le iniziative volte a questo scopo: la maggior parte dei progetti sociali si impegna affinché rifugiati e richiedenti asilo ricevano cibo e vestiti, ma nessuno si preoccupa della loro anima».
Da maggio 2016 l’associazione citizen2be può contare su uno spazio autonomo, situato nel quartiere berlinese di Prenzlauer Berg: «Grazie ai fondi raccolti attraverso una campagna di crowdfunding e una festa solidale possiamo permetterci questo spazio, dove teniamo corsi, consulenze ed eventi che consacrano il centro innanzitutto come luogo d’incontro. Qui è nata una vera e propria community al femminile. Oltre ai corsi di yoga organizziamo lezioni di arabo (tenuti dalle donne rifugiate stesse ndr), workshop di pittura, consulenze lavorative e sedute di naturopatia. Dal 2018 vorremmo avere con noi anche uno psicoterapeuta e assumere Arwa, la mia prima alunna in assoluto. Sogno che un giorno lo spazio funzioni a tal punto da mantenersi e generare lavoro. Siamo ambiziosi e fiduciosi: quest’anno abbiamo ottenuto un finanziamento dall’associazione startsocial che dal 2000 sostiene iniziative sociali meritevoli e presto riceveremo le donazioni raccolte da un amico che ha rinunciato ai regali di compleanno a nostro favore».
Il nome dell’associazione, citizen2be, rimanda all’espressione con cui in Canada vengono definiti migranti, rifugiati e richiedenti asilo: cittadini del futuro. Scegliendo questo slogan Bettina ha inteso esplicitare l’obiettivo ultimo dell’associazione, la piena integrazione di questi soggetti: «In qualità di donna bianca, nata in uno dei Paesi più ricchi del mondo e cresciuta in una famiglia benestante, mi sento in dovere di restituire parte di ciò che ho ricevuto venendo al mondo senza compiere alcuno sforzo. Ritengo che dare sia molto più semplice che ricevere: io stessa mi sento a disagio se devo chiedere aiuto ai miei amici, figuriamoci cosa può significare per queste donne dipendere da una perfetta sconosciuta come me, che sostiene di poter risolvere i loro problemi. Molti mi ricordano che non potrò cambiare il mondo e questo mi fa arrabbiare: se tutti la pensassero così non accadrebbe mai nulla. Ogni rivoluzione è iniziata da una piccola scintilla: sono convinta che questo sia il momento giusto per avviare un cambiamento».