Oliviero Toscani, basta non il nome ma l’immagine, come quella che vedete qui in apertura, e non è possibile restare indifferenti. Le sue foto colpiscono sempre il bersaglio, suscitando reazioni fortemente emotive, sovente viscerali: sdegno e ammirazione, fastidio e stupore, condanna ed esaltazione.
Una mostra al museo m.a.x. di Chiasso, appena prorogata al 4 febbraio 2018, Oliviero Toscani. Immaginare, ci offre un’occasione preziosa per ripercorrerne la quarantennale carriera di fotografo, direttore artistico, comunicatore e (per usare un termine da lui aborrito) creativo.
Figlio di Fedele, primo fotoreporter del “Corriere della Sera”, Oliviero impugna la macchina fotografica subito dopo avere abbandonato il biberon, crescendo in una famiglia dove l’immagine è il pane quotidiano, e, quando decide di seguire le orme paterne, viene mandato dal lungimirante genitore in Svizzera: dal 1961 al ’65 frequenta la Kunstgewerbeschule (Scuola di Arti Applicate) di Zurigo, lavorando con insegnanti che tramandano la grande lezione di metodo e di ricerca formale del Bauhaus; tornato a Milano, incomincia la sua fortunatissima carriera nell’ambito della pubblicità e moda, come fotografo per prestigiose riviste, da “Elle” a “Vogue”, da “Esquire” a “GQ”, e per grandi aziende e brand internazionali.
La rassegna ci introduce all’universo dell’artista milanese a partire da una chicca estremamente stuzzicante, che ci permette di scoprire Toscani prima di Toscani: si tratta di un gruppo di stampe, prevalentemente in bianco e nero, realizzate durante il periodo svizzero come esercizi e prove d’esame, spesso in occasione dei viaggi di studio compiuti con compagni e docenti per permettere agli allievi di sperimentare le proprie doti di visione e costruzione dell’immagine direttamente sul campo.
È affascinante vedere il giovane e già dotatissimo fotografo regalarci brani rapinosi di street photography a Londra (1962), ricavare forme rugose, ma solenni e geometricamente perfette dai menhir bretoni (1963), enfatizzare la potente luce pugliese ed esasperare il contrasto bianco/nero negli scatti di Ostuni (1964) e sperimentare infine inquadrature irregolari, storte, per lo più dal basso, per rendere i vertiginosi salti di scala tra i grattacieli di New York (’65).
Ma la mostra di Chiasso non è una semplice esposizione di stampe fotografiche, quel che propone al visitatore è un’esperienza più complessa e immersiva: il suo cuore è costituito da quattro stanze multimediali, disposte su due livelli dell’edificio – chiamate camere oscure, a evocare il luogo dove, in tempi di pellicola, venivano partorite le fotografie – che ci avvolgono e bombardano con un’inarrestabile cascata di foto, pagine di riviste, copertine, filmati e interviste. Questa scelta delle due curatrici – Susanna Crisanti dello Studio Toscani e la direttrice del museo Nicoletta Ossanna Cavadini – non vuole selezionare, come di solito si fa, un manipolo di foto che costituiscano “il meglio di”, permette invece qualcosa di più stimolante, un accesso privilegiato al “sistema Toscani” (come recita uno dei saggi in catalogo) per comprendere le ragioni e i metodi di quella sua attitudine a immaginare cui la mostra è consacrata. Immaginare è un processo innanzi tutto mentale, da cui l’immagine discende come una conseguenza, realizzazione in forme, struttura e colori di un’intuizione che nasce da un continuo esercizio di attenzione e ascolto della realtà: “io non ho mai avuto un’idea, io sono un situazionista, sono sempre presente a quello che succede”, e ancora: “io sono un testimone del mio tempo”. La dirompente forza delle sue fotografie deriva da questa adesione totale alle questioni del presente, con il coraggio di affrontare anche quelle più sgradevoli, fastidiose, rimosse e perciò solitamente invisibili: sono quei temi, presentati in quella resa formale ed espressiva e diffusi attraverso quei canali di comunicazione a costituire quel mix inconfondibile che possiamo chiamare lo stile Toscani.
I bambini abbracciati, uno bianco e biondo come un angioletto e l’altro nero con i capelli arricciati a formare due corna come un diavoletto, memorabile icona United Colors of Benetton, pare ci cadano addosso nel ravvicinatissimo primo piano, mentre riempiono quasi completamente l’amato sfondo bianco, un accorgimento stilistico tipico di Toscani, che elimina ogni dettaglio superfluo, ogni particolare non strettamente utile al messaggio. Solo l’essenziale è nell’inquadratura.
Provocatore? Certo, e orgogliosamente, di fronte ai numerosi attacchi, alle accuse di speculare sulle disgrazie e i dolori per far vendere le aziende di cui cura la comunicazione, Toscani rivendica da sempre il valore positivo della provocazione; in una società e in un sistema di comunicazione d’impresa burocratizzati, conformisti, paurosi, la creatività deve spezzare le barriere, costringerci a vedere diversamente, a pensare inaspettatamente: “La creatività è un surplus di energia, intelligenza e di sensibilità, è quella possibilità che sta fra il cuore e il cervello. La creatività è genesi, nascita, forza divina, energia, fantasia, sofferenza, impegno, fede, generosità. La creatività deve essere visionaria, sovversiva, disturbante. Comunque sia deve essere innovatrice, deve spingere idee e concetti, deve mettere in discussione stereotipi e vecchi moduli. La creatività ha bisogno di energia e di coraggio.”
Alla luce di questo inizio di discorso tenuto a New York e Londra e pubblicato in catalogo, capiamo perché un neonato, soggetto vezzeggiato nella storia dell’arte come una creatura innocente, tenera e angelica, sotto le grinfie di Toscani diventi un esserino sporco, urlante e congestionato, il cordone ombelicale ancora attaccato, che ci colpisce come uno schiaffo: è impossibile far finta di niente di fronte a questa immagine affascinante e ripugnante, che cattura l’occhio e solo dopo averlo obbligato a vedere, quando la foto ha portato a termine il proprio compito e la vittima è caduta nella rete, lo respinge.
Questa foto fu anche una copertina della celebre rivista “Colors”, fondata nel 1991 e a lungo diretta da Toscani durante la sua fortunatissima collaborazione con Benetton (recentemente ripresa); diversi stamponi originali di copertine esposti ci sorprendono anche oggi, nutriti e ingozzati di immagini 24 ore su 24 come siamo: il numero sull’AIDS (del 1994!), con la disturbante immagine del gesto volgare di una mano inguantata in un allusivo lattice rosso che spazza via le lettere della parola, è un invito urlato e plebeo a parlare chiaro su certi temi, dove la pruderie moralistica può costare la pelle a diverse persone. È invece del 1992 la copertina dedicata al tema dell’immigrazione: quella nave stipata di persone che cadono fuori bordo 25 anni fa poteva sembrare quasi folcloristica, tanto quel dramma sembrava lontano…
Diversità e uguaglianza, noi e gli altri, l’essere straniero, l’emarginazione e l’esclusione sociale: sono i temi ricorrenti di Oliviero Toscani, come di moltissimi artisti di tutto il mondo, che ne sentono la centralità, dolorosa e profonda, nella nostra società. È in questo ambito che il fotografo milanese sta portando avanti dal 2007 il progetto “Razza umana”, un’indagine attraverso la fotografia e il video su “la morfologia degli esseri umani, per vedere come siamo fatti, che faccia abbiamo, per capire le differenze.” In mostra e su grandi pannelli di fronte al m.a.x e per le vie del centro di Chiasso vediamo una serie di questi ritratti, che rinnovano ancora una volta una delle grandi sfide della fotografia: metterci occhi negli occhi con un’altra persona, predisporre un incontro, consentirci una scoperta.
La mostra di Toscani fa parte della Biennale dell’Immagine di Chiasso, giunta alla X edizione, dedicata al tema Borderlines. Città divise/città plurali che presenta diverse altre mostre nella cittadina ticinese (fino al 10 dicembre), tra cui mi piace ricordare almeno: la serie di ritratti della fotografa brasiliana Angélica Dass, che con il suo progetto Humanae ha già toccato una trentina di città in tutto il mondo; il sorprendente lavoro (su commissione della stessa Biennale) Al limite di Paola di Bello e Giacomo Bianchetti, che indagano la linea di confine tra Chiasso e Ponte di Chiasso, tra Italia e Svizzera e, infine, la splendida mostra del fotografo e artista tedesco Michael Wolf, Life in Cities, nello Spazio Officina (proprio accanto al m.a.x.): lo sguardo di Wolf spazia da un piccolo centro minerario tedesco alle grandi megalopoli asiatiche, dai grattacieli trasparenti e come disincarnati di Chicago alle persone stipate in metropolitana a Tokyo. È la vita in città, è la nostra vita, in queste immagini inquietanti, ora monumentali ora minuscole, bellissime.