“Dario ma quindi? Ci hai parlato? Guarda che quel tipo è veramente tanta roba!”
Potrebbe sembrare la frase detta da un amico il sabato sera in discoteca, invece siamo in palestra, durante la pausa pranzo di un qualsiasi giorno della settimana. Oggetto: un ragazzo da capogiro chiaramente fuori dalla mia portata. A pronunciarla un uomo adulto ed eterosessuale, uno degli stoici partecipanti al mio corso di cross-fit (per i profani un corso per drogati di fitness dove i risultati sono inversamente proporzionali alla sofferenza). Una frase che mi ha fatto riflettere.
Partiamo dall’ambiente. Una palestra quindi un ambito prettamente sportivo, da sempre uno dei più difficili da affrontare per chi appartiene alla comunità LGBT*, perché è un luogo in cui gli schemi machisti imperversano. Le dinamiche da spogliatoio, il timore del giudizio, della discriminazione spingono molti a tacere, a celare. Se usciamo, poi, da un’ottica dilettantistica e passiamo all’agonismo il tutto non può che peggiorare, perché entrano in gioco anche i tifosi, il mondo esterno allo spogliatoio, gli stereotipi, il giudizio che non perdona. Anche se negli ultimi anni alcuni esempi ci hanno fatto ben sperare (solo per citare alcuni coming-out, Ian Thorpe nuotatore; Casey Stoney calciatrice; Michael Sam football americano; Thomas Hitzlsperger calciatore; Tom Daley tuffatore; Martina Navratilova tennista; Nicole Bonamino hockey) gli episodi di violenza e intolleranza non sembrano smettere, soprattutto se soffermiamo l’attenzione su sport considerati simbolo di virilità come il calcio.
E’ soltanto di qualche giorno fa la notizia secondo cui in Georgia si è svolta una manifestazione anti-LGBT* con annessa bandiera rainbow data alle fiamme. Il Motivo? Un calciatore, Guram Kashia, ha indossato nella giornata nazionale del coming-out una banda arcobaleno sul braccio durante una partita. Pare un affronto inaccettabile al mondo del calcio, alcuni tifosi ne hanno chiesto l’espulsione dalla squadra. A migliorare la situazione ci ha provato Greg Clarke della Federcalcio Inglese (FA) che, a inizio campionato, aveva proposto ai calciatori gay professionisti di fare un coming-out collettivo per sostenere un cambiamento radicale e rendere il mondo del calcio più inclusivo. Lodevole proposito, peccato che qualche giorno fa, in un’intervista al The Telegraph abbia ammesso che non solo nessun giocatore professionista si è offerto di partecipare, ma nessuno ha proprio voluto incontrarlo. Solo il campionato femminile e quello dei semi-professionisti e dei dilettanti si è dimostrato essere più aperto al riguardo.
Bel pasticcio. Come uscirne?
Torniamo alla domanda iniziale che mi ha fatto riflettere. Intendiamoci, stiamo parlando di una palestra nel centro di Milano e non dello spogliatoio di club di serie A, ma la naturalezza con cui un tipico cliché da palestra, il commento sul ragazzo o ragazza bono/a di turno, è stato applicato ad un contesto gay – nel caso specifico me – è, a mio parere, l’indubbia prova che un cambiamento radicale, non delle singole persone ma di un intero ambiente possa avvenire. La battuta, la frase scherzosa da camerata è quel passaggio che non ti fa sentire solamene accettato, c’è qualcosa in più. Ti senti a casa perché cade anche l’ultima barriera, sei parte di un ambiente specifico e, di conseguenza, sei soggetto ai medesimi meccanismi e cliché di tutti gli altri, non importa che chi tu sia o che vita conduca. “Tanta roba” direi parafrasando il mio amico.
Perché questo modello, questo cambiamento, non può avvenire anche fuori da contesti così specifici? Senza presunzione di voler dare una soluzione, ho cercato di ragionare su come l’ambiente attorno a me sia cambiato nel tempo. Dal momento in cui ho messo piede in palestra ad oggi ho conosciuto molte persone, ad alcune ho parlato di me e della mia vita, ad altre no, sempre con molta naturalezza, senza farmi troppi problemi. Dopo anni, le persone che mi circondano sono amici rodati, ridiamo e scherziamo ogni giorno su quello che ci accade durante la giornata e sui nostri punti deboli. Io li ho aiutati a comprendere parte del mio mondo, loro mi hanno aiutato a comprendere il proprio. In sostanza l’ambiente in cui non mi sento giudicato ma accolto dove sono chiamato a rispondere a un cliché per il solo fatto di appartenevi, lo abbiamo costruito assieme, passo a passo attraverso un confronto e una condivisione quotidiana.
Allora comincio a capire perché alla richiesta di confronto di Greg Clarke e della Federcalcio inglese hanno risposto i semi-professionisti e i dilettanti ma non i professionisti. Forse lontano dai riflettori, dagli stereotipi, dalle becere strumentalizzazioni, le persone stanno cominciando a costruire attraverso la condivisione quotidiana, quel cambiamento che tutti auspichiamo e che, qualche volta, abbiamo anche la fortuna di vedere. Allora lo sport tornerà ad essere un luogo di incontro, di confronto costruttivo e, perché no, di sana competizione. A tal proposito Giovanni, so che stai leggendo, quindi non illuderti, non hai speranza di battermi alla gara di crossfit di metà dicembre, ti straccio!