Theresa Mary Brasier – coniugata May – ha appena soffiato la sua prima candelina a Downing Street. Per la sessantenne premier britannica è stato un anno vissuto pericolosamente: dalla spada di Damocle della Brexit ereditata da David Cameron fino alla (quasi) sconfitta alle elezioni del giugno scorso, per non dimenticare le critiche alle sue ballerine leopardate, sussurrate di bocca in bocca tra i salotti di Washington e gli Champs Elysées. In questi giorni lei e il suo governo sono immersi nel pieno delle trattative di divorzio dalla Ue, ma la stampa britannica ha trovato lo stesso il tempo di fare le pulci al suo primo anno di mandato. Cosa ha fatto, Theresa May, per le donne inglesi? Poco, è la risposta.
In primo luogo, al momento di fare le liste per le ultime elezioni politiche, ha puntato sui candidati maschi. Se il parlamento uscito dalle urne l’8 di giugno è tra quelli a più alto tasso di presenza femminile che la storia inglese ricordi, certo non è stato merito di Mrs May: tra le candidature dei Tory le donne erano solo il 29%, e tra quelle elette ce ne sono finite ancora meno, il 21%. Niente a che vedere con le quote rosa dei laburisti: 41% le donne sul totale dei candidati, addirittura il 45% sul totale dei parlamentari eletti.
Nel suo primo discorso di insediamento a Downing Street, Theresa May dichiarò che le differenze salariali tra uomini e donne avrebbero avuto un posto nella sua agenda. A un anno da quello speech, i dati ci dicono che in media le donne inglesi guadagnano il 14% in meno dei colleghi maschi, e che la legge sulla trasparenza, che obbliga le imprese a rendere pubblico il proprio tasso di gender gap salariale, è stata abbastanza disattesa: dalla sua entrata in vigore, a gennaio, solo sette imprese hanno proceduto alla pubblicazione dei dati. Non un rimprovero è arrivato, da Mrs. May. E anche l’aver aumentato l’età pensionabile delle donne da 60 a 65 anni nel 2018 – quindi a 66 nel 2020 – non le ha fatto guadagnare punti presso l’elettorato femminile.
L’alleanza con il partito degli unionisti nordirlandesi per mantenere il governo, poi, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso delle femministe inglesi. A Belfast l’aborto è illegale, a meno che la vita di una donna sia a rischio, e il Partito Unionista è sempre stato contrario ad allentare le maglie della legge. Per costringere Theresa May ad aprire le porte del Sistema sanitario nazionale britannico alle donne nordirlandesi c’è voluta una manifestazione di piazza. Non solo delle laburiste, ma anche delle parlamentari Tory.
E dire che Theresa May nel 2005 è stata cofondatrice di Women2Win, il raggruppamento all’interno del Partito conservatore inglese per promuovere la parità uomo-donna tra i seggi del Parlamento. Nel 2010, poi, mentre era ministro degli Interni, May ebbe per due anni anche la delega a ministro per le Pari Opportunità. Fece anche stanziare 1,4 milioni di sterline a sostegno delle donne vittime di mutilazioni genitali.
C’è una certa discrepanza, tra il curriculum di Mrs May prima e dopo la poltrona di Primo ministro. Il suo femminismo risponde in maniera inversamente proporzionale alla ragione di stato. Chissà se le donne inglesi si sono pentite di averla sostenuta.
E voi, votereste una donna? E se sì, da chi vi sentireste rappresentate in Italia?