I cavalieri della camera oscura compiono 70 anni: la leggendaria agenzia Magnum – la più famosa e celebrata nella storia della fotografia – venne fondata infatti a New York nel 1947 da Henri Cartier-Bresson, Robert Capa, George Rodger e David Seymour (Chim).
Il nome? Deriva da una bottiglia magnum di champagne, utilizzata per benedire il varo di questa flotta di avventurieri, che, armati di una Leica, si dispersero da subito ai quattro angoli del globo a caccia di storie. Da allora il mondo della comunicazione e dell’editoria sono profondamente cambiati, la rivoluzione digitale ha investito tutte le realtà che ne facevano parte, molte agenzie sono scomparse, ma la Magnum resiste e resta un’eccellenza, che ha deciso di festeggiarsi con una serie di mostre, in Italia in ben tre sedi, a Brescia, Torino e Cremona.
Voglio ingolosirvi raccontandovi quanto potrete vedere a Brescia (fino ai primi di settembre), nel complesso museale di Santa Giulia, dove due mostre celebrano la Magnum che fu e l’odierna: la forza della tradizione e l’energia vitale di una realtà capace di attrarre da tutto il mondo alcuni dei migliori giovani fotografi, ammessi solo dopo un lungo e selettivo tirocinio a far parte di questa accademia Jedi della fotocamera.
L’origine di Magnum first è degna di un thriller ambientato nell’Austria degli anni ’50, sul confine tra i Paesi occidentali e la cortina di ferro: alcune casse scompaiono nel nulla e si perde la memoria del loro prezioso contenuto. Nel 2006, in una cantina di Innsbruck, qualcuno decide di aprire delle polverose casse, depositate lì da sempre, e… meraviglia! Riemerge un’ottantina di stampe fotografiche di Cartier-Bresson, Robert Capa, Werner Bischof, Erich Lessing, Inge Morath, Ernst Haas, Marc Riboud e Jean Marquis: è la prima mostra dei fotografi Magnum, “Gesicht der Zeit” (“La faccia del tempo”), allestita in diverse città austriache tra il giugno 1955 e il febbraio 1956.
Oggi, dopo un lungo lavoro di restauro e di recupero, è possibile ammirare questa prima volta: è emozionante osservare queste foto, i loro supporti originali in semplice compensato, il taglio irregolare delle stampe, l’artigianalità della presentazione, tutti elementi che sottolineano ancora di più la forza di queste immagini. Sfilano sotto i nostri occhi le diverse, eccezionali individualità artistiche: l’entusiasmo della gente che ritorna ai semplici piaceri di un’esistenza di nuovo serena, dopo l’incubo della guerra, nelle feste basche di Robert Capa o nella vitalità tenera e sfrontata dei bambini austriaci di Erich Lessing; la signorilità ancora absburgica dell’Ungheria di Jean Marquis e la religiosità sincera delle ragazze nella cattedrale, mentre, vestite di bianco, assistono alla messa con una candela in mano; la dignità dei contadini e dei lavoratori dalmati, che Marc Riboud rapina in istantanee di purissima straight photography, e l’eleganza snob della city londinese che l’unica donna del gruppo, Inge Morath, riprende in inquadrature nitide e profonde, dalla trasparente luce nordica. E ancora il reportage di Cartier-Bresson sugli ultimi giorni di vita e i funerali del Mahatma Gandhi (1948): un servizio indimenticabile, dove convivono scatti da reporter d’attualità con altri visionari – l’annuncio dell’assassinio, i funerali e la cremazione affollate da un’imponente muraglia di gente -, colmi di quella spiritualità orientale che tanto affascinava il grande maestro dell’istante decisivo. Il servizio di Ernst Haas sul set del film kolossal di Howard Hawks La regina delle piramidi (1955), che ci presenta foto grandiose, scolpite dalla luce tagliente dell’Egitto, e sembra davvero di essere proiettati attraverso una macchina nel tempo nella terra dei faraoni. Le immagini di Werner Bischof, infine, che si distinguono per l’altissima qualità formale: sono foto che richiedono di essere assaporate con lentezza come il buon vino, devono essere lasciate decantare negli occhi, come quella che apre questo articolo, scattata sotto la neve silenziosa che cala sul cortile di un tempio giapponese a Tokyo. Un’immagine senza tempo, come una stampa di Hokusai.
La seconda mostra, Magnum. La première fois, nasce invece da un’idea di François Hebel, già direttore del celebre festival della fotografia di Arles, e ci fa vedere, di 20 fotografi dell’agenzia, le immagini della prima volta nella quale, scattando, hanno trovato la propria inconfondibile voce e hanno scoperto sé stessi. È in questo esperanto di stili, di storie, di generazioni e di nazionalità differenti la linfa che nutre l’albero dell’agenzia; in questo mix convivono il linguaggio emozionale, sporco, di pelle del reportage contemporaneo, usato dai giovani Olivia Arthur (del 1980 !), che si dedica alle donne al confine tra Europa e Asia, e Jacob Aue Sobol, che documenta la sua vita in uno sperduto villaggio della Groenlandia con la fidanzata di etnia inuit, con lo stile potente e drammatico con cui il nostro Paolo Pellegrin rappresenta la guerra del Kosovo o con l’esuberanza trascinante del colore di Bruno Barbey e Alex Webb, l’uno in Brasile l’altro in Messico.
Il festival bresciano offre però altre occasioni da non perdere: possiamo scoprire, nell’altra sede espositiva del Ma.Cof, il preziosissimo servizio del grande reporter italiano Caio Mario Garrubba sulla Cina di Mao, realizzato nel 1959 http://bresciaphotofestival.it/event/garrubba-cinesi-1959/. Garrubba fu il secondo fotografo occidentale dopo Cartier-Bresson ammesso nel paese, di cui ci lascia un ritratto ricco di fascino e al di fuori di ogni pregiudizio ideologico. Sempre al Ma.Cof, purtroppo solo fino a fine settimana, una bellissima monografica ripercorre inoltre la carriera di uno dei più colti fotoreporter dei nostri giorni, Uliano Lucas http://bresciaphotofestival.it/event/uliano-lucas-retrospettiva/, che ha documentato in una carriera cinquantennale una serie di temi – il lavoro, la vita nelle nostre città, i fenomeni migratori, le persone con problemi di salute mentale – di grande rilievo sociale, attraverso un’attenzione costante nel corso degli anni. Dalle sue foto emerge con cristallina evidenza la responsabilità morale e politica di cui è investito un fotoreporter, se decide di usare la macchina fotografica come strumento per conoscere e riflettere sulla realtà. Si può pensare e scrivere non solo con le parole. Non è davvero poco, merita una visita.