<< Quando abbiamo cominciato?>>, verrebbe da iniziare così il ragionamento, ma sarebbe la domanda sbagliata. <<Quando abbiamo smesso?>>, ecco questa sarebbe forse la domanda giusta. Quando abbiamo smesso, ripensando alla nostra storia passata o recente, di costruire muri, di mettere cartelli con “vietato entrare a…”. Di avere paura e di difenderci “dall’Altro”. Mai. Questa la risposta sincera. Semplicemente mai, in nessun momento storico, continente, nazione o civiltà. Certo non sempre allo stesso modo, non sempre verso lo stesso “Altro” e naturalmente con intensità diverse, ma la paura e la difesa dall’Altro, in tutte le sue diverse forme, gradazioni ed elaborazioni, si può dire essere una costante che da sempre ci caratterizza socialmente e politicamente. Che struttura dall’interno valori, politiche e forme di governo, condizionando e determinando nel bene o (tragicamente) nel male la nostra storia. Nella mitigazione come nell’esasperazione di questo (a quanto pare) incancellabile atavico istinto che ci porta a difenderci da ciò che percepiamo non solo come alterità, ma come diversità manifesta.
Per le ragioni più svariate, che questo sia storicamente l’ennesimo periodo di esasperazione della fobia dell’Altro, è evidente a tutti. E lo si percepisce bene dalla moltiplicazione e dalla facilità con cui siamo pronti ad individuare non uno, ma una moltitudine di “Altri” da noi. E che Donald Trump sia in brevissimo tempo diventato l’icona più rappresentativa di questa “cultura” di esasperato rifiuto e difesa, è altrettanto ovvio. Nelle macro (muri e divieti di ingresso) come nelle micro (ma non per questo meno gravi o importanti) prime decisioni del suo mandato. Ed anzi, forse sono proprio queste ultime a raccontare meglio la capillarità di questo trend. Decisioni per esempio come quella appena presa dalla amministrazione Trump, di rimandare ai singoli Stati Federali la disciplina per l’accesso ai bagni scolastici per i ragazzi transgender.
Appena un anno fa il governo Obama aveva garantito protezione agli studenti transessuali consentendogli di usare i bagni e gli spogliatoi che corrispondono alla loro identità di genere. Revocare oggi questa norma da parte di Trump significa non solo strizzare l’occhio a quel conservatorismo integralista che gli ha garantito sostengno e vittoria. A livello culturale e politico significa molto di più. Significa stabilire che i muri non devono essere costruiti solo tra Stato e Stato, ma anche tra persona e persona. Significa che anche la porta di un bagno scolastico può diventare un muro invalicabile per dire a qualcuno, ad un adolescente cittadino di quello stesso Stato, che anche lui fa parte di quegli “Altri” che devono essere lasciati fuori. Fuori dal rispetto, dai diritti, dalla dignità di potersi affermare e riconoscere nella propria diversità.
Chi conosce la disforia di genere, sa perfettamente quanto sia profonda e acuta la sofferenza di queste persone nel non potersi socialmente vivere secondo il genere con cui si identificano. Una sofferenza precoce, che al contrario di quanto si crede, inizia spesso già dall’infanzia, e che rischia, laddove non accolta, compresa e accompagnata, di sfociare più avanti addirittura nel suicidio. Ma tutto questo non conta. Non conta per la politica che non solo negli USA, ma pericolosamente anche in Europa, sulla paura dell’Altro e sull’esclusione fabbrica il proprio consenso. Non conta nonostante consentire l’accesso al bagno secondo l’identità di genere, senza creare alcun problema, migliorerebbe la vita di questi ragazzi. Non conta nonostante proprio dalla scuola dovrebbe partire l’educazione al rispetto delle differenze.
Conta solo stabilire chi può entrare dove, chi è uguale a chi. Nell’epoca dello sfruttamento della paura, dell’incitamento alla paura, per costruire la propria identità, conta stabilire ogni volta chi sia l’Altro da cui strategicamente difendersi. Da attaccare, cancellare. Da escludere e lasciare fuori. Dai confini, dal diritto, dal rispetto. O dalla porta di un bagno, trasformata nell’ennesimo muro.