Non amo teorizzare, per cui proverò a raccontare la mia “ idea d’ impresa “ attraverso alcune storie concrete.
Ieri, mentre lavoravo in una nostra azienda, ho incontrato in un corridoio una studentessa di 18 anni, stagista per pochi giorni da noi, che sperimentava i nuovi programmi ministeriali di “alternanza scuola-lavoro”, che richiedono agli studenti degli ultimi anni di liceo un’ esperienza aziendale di 40 ore. Ho avuto il desiderio di parlarle, di capire il suo sogno futuro, e come percepiva il suo rapporto con il lavoro. Era intelligente, tenera e un po’ spaventata rispetto alle sue prossime scelte universitarie: cinese, arrivata in Italia a 4 anni, mi interrogava su quali sarebbero state le professioni di domani.Grazie a lei, mi sono ricordata di quando, a 23 anni, mentre ero ancora una studentessa anch’io, avevo fondato l’impresa in cui ora lei sta. Sognavo, allora come oggi, un mondo ideale in cui le aziende fossero un luogo di costruzione di progetti, di condivisione, di incontri umani, di crescita umana e professionale delle persone, di realizzazione individuale e comunitaria.
Mentre scrivo, 35 anni dopo quell’inizio, so bene che ciò non è stato sempre vero, e oggi lo è raramente. Nella mia storia di imprenditrice, in questi anni, anch’io non ho potuto o saputo mantenere sempre vivo questo sogno. Per molti anni, mi ero illusa che quasi tutti gli imprenditori e i manager desiderassero, davvero, costruire ambienti positivi per i loro stakeholders, a partire dai collaboratori (non ho mai amato e non uso il termine “ dipendenti”). Oggi, percepisco intorno a noi timore e scetticismo crescente, anche su questi temi. Eppure, a costo di sembrare un’adolescente lontana dalla realtà, credo che solo le aziende in cui “la gente sta bene“ potranno vivere a lungo, perché solo esse sapranno sperimentare autentica innovazione di prodotto e di processo, coinvolgendo tutti coloro che in esse operano. Non basta: avranno futuro solo le aziende che sapranno costruire valore nel tempo, e non solo risultati economici di breve periodo, a favore di coloro che le guidano. Questo è il primo passaggio fondamentale dell’etica applicata alle imprese: l’etica al centro, e non certo per ssere buoni, ma perché è più intelligente, oltre che giusto, farlo.
Un altro punto fondamentale del mio sogno di impresa positiva è la coerenza morale dei capi, manager e/o azionisti. Anche qui, trovo che l’arroganza, la mancanza di sobrietà (show-off), l’incapacità di ascoltare e/o comunicare con i collaboratori, siano imperdonabili. Ancora peggio, segnalano la fragilità umana e l’insicurezza di chi guida senza esserne degno. In qualche modo, penso che ogni leader, in azienda, porti con sé una responsabilità educativa, simile a quella di un genitore o di un fratello maggiore. Per me, che sono stata a lungo scout, un capo azienda che non identifica il potere con il servizio, non ha capito molto del suo ruolo.
Nel tempo, attribuisco un’importanza sempre maggiore alla capacità di “ fare squadra “ intorno a sé, e alla grande differenza fra l’autorevolezza e l’esercizio del potere. Le aziende sono diventate, negli ultimi anni, il più importante luogo di socialità delle nostre vite. Hanno, in pratica, sostituito molti altri luoghi di vita condivisa. In parallelo, le famiglie sono diventate sempre più piccole. Quindi, anche se imperfette e non destinate a ciò, in origine, le aziende sono diventate, di fatto, piccole o grandi comunità.
E questo pensiero mi porta ad Adriano Olivetti, che ho studiato e ammirato tanto, fin dai miei primi anni di giovane imprenditrice. Nei suoi scritti, le Comunità urbane avrebbero dovuto “possedere” almeno una fabbrica di medie dimensioni. Queste fabbriche (o aziende in senso lato, come potremmo definirle nell’era digitale…) non avrebbero dovuto essere nè private nè pubbliche, ma socializzate, cioè di proprietà mista. I consigli d’amministrazione sarebbero stati composti da manager, rappresentanti dei lavoratori, della Comunità e degli istituti culturali. Le aziende non avrebbero rischiato di indebolirsi per questo, perché manager scelti con rigore e meritocrazia avrebbero avuto la responsabilità degli investimenti produttivi, mentre i profitti eccedenti sarebbero stati reimpiegati per il bene della Comunità. Fabbriche e uffici sarebbero stati “aperti alla luce e rallegrati da fiori ed alberi”. Le scoperte della scienza avrebbero reso il lavoro nè troppo lungo, nè faticoso. Coloro che facevano parte di un’ azienda avrebbero avuto chiaro il senso ed il valore del proprio lavoro, poichè partecipavano realmente ad essa ed eleggevano propri rappresentanti nel governo dell’ impresa stessa e della Comunità.
Non credo che il pensiero di Adriano Olivetti sia superato. Gli imprenditori che scelgono di trasferire gran parte del proprio patrimonio ad una fondazione non profit ( Gates, Buffett, Zuckerberg ) attuano il desiderio di dar vita, anche se in modi diversi, un’impresa di responsabilità sociale. “Yes, we can“ era il primo, magnifico slogan di Barack Obama…