‘Signori io non vi ho mentito, avete visto coi vostri stessi occhi i mostri viventi del nostro serraglio. Voi ne avete riso o provato ribrezzo, tuttavia se lo avesse voluto la natura beffarda, anche voi potreste essere come loro. Non hanno chiesto loro di venire a questo mondo, eppure sono qui tra noi. Si riconoscono in un codice che nessuno ha mai scritto. Offendetene uno, e si sentiranno offesi tutti quanti.’
Freaks, 1932, regia di Tod Browning.
Quando si affronta la disabilità da genitore emerge spesso il tema della vergogna, la vergogna di aver partorito un figlio fuori norma, la vergogna della diagnosi, la vergogna di malattie che un pò si vedono e un po’ no, la vergogna di comportamenti anomali in società, la vergogna di strani rumori o liquidi umorali che entrano a far parte delle nostre routine di nuova vita. La vergogna di per sé non ha valore, lo assume solo quando il senso di fallimento si confronta con il rispetto delle regole o con i modelli di condotta condivisi con gli altri. Avrei dovuto essere così, avrei dovuto fare così, ma non l’ho fatto: chissà cosa penseranno ora gli altri?
A me è successo ma l’ho voluto chiedere anche a Martina Fuga, mamma (esemplare) di Emma, che sulla loro vita insieme ha scritto un libro che ha fatto un po’ la storia dei racconti sulla diversità in Italia ‘Lo zaino di Emma’, queste le sue parole: ‘L’emozione che mi ha accompagnato in questi 11 anni è stata il senso di colpa più che la vergogna. Stimo talmente tanto mia figlia per il suo approccio alla vita, per la grinta e la determinazione con cui risponde alle sue fatiche che non posso che andare fiera di lei. Però dal primo giorno provo un enorme senso di colpa nei suoi confronti in primis per averle dato questo carico da portare tutti i giorni sulle spalle: per quanto la mia vita di mamma di una ragazzina disabile sia difficile, la sua lo è certamente di più, e c’è davvero poco che io possa fare per alleviare le sue fatiche. Poi provo colpa nei confronti dei suoi fratelli a cui sento di aver condizionato la vita in qualche modo. Per quanto io non deleghi loro alcuna responsabilità sulla sorella, loro se ne assumono molte. Hanno sempre un occhio su di lei, la proteggono e la difendono, la incoraggiano e la supportano, e allo stesso tempo si lamentano di trattamenti di favore e rivendicano il loro ruolo di figli bisognosi di altrettante attenzioni. A scuola o nello sport pretendono da se stessi il massimo, come se fosse loro compito pareggiare i conti con la vita. Per quanto io cerchi di fermare questo circolo vizioso, fallisco ripetutamente. Ecco, forse in quelle occasioni il senso di colpa mi trafigge come un’arma affilata e mi vergogno di non essere all’altezza del mio compito di madre. Se contro la disabilità di mia figlia sono e sarò impotente, nell’educazione dei miei figli non mi perdono di fallire così.
Se mi sforzo di pensare all’emozione della vergogna, l’unica situazione che mi viene in mente è quando sgrido Emma in pubblico. Spesso a ragione, ma il mondo esterno che vede solo quel momento non capisce e mi giudica. “Mica si può sgridare così una ragazzina handicappata!” leggo nei loro sguardi giudicanti. In quelle occasioni mi incazzo! Ma altre volte la sgrido quando perdo la pazienza, perché a volte sono stanca, sfinita dalla giornata, dalle fatiche, dal suo essere oppositiva o anche solo dal suo non farcela e vorrei fermarmi e spegnere la luce. Invece non posso permettermelo e quando lei fa quella cosa che fa esplodere la mia rabbia, magari anche una cosa piccola, ma che mi fa tracimare, io sbotto. Quello è il punto di rottura per eccellenza con la me stessa che posso accettare, accogliere, comprendere. Quando ho quegli scatti di rabbia e la sgrido in modo eccessivo rispetto alla cosa in sé, solo perché ho accumulato fatiche e stress, ecco lì sì provo vergogna e mi sento totalmente inadeguata non solo agli occhi degli altri ma anche ai miei.’
E poi l’ho chiesto ad Angela Setaro, professionista (esemplare anche lei) che riunisce in sé competenze tecniche come psicoterapeuta e terapista della riabilitazione, di lunga esperienza con famiglie speciali ed empatia nella relazione con questi genitori fragili: incontrando così tante famiglie che affrontano diversi problemi di disabilità, che vergogna osservi in queste relazioni? ‘La vergogna che vedo io è un’emozione, e come altre emozioni ha la funzione di proteggerci e di fornire una risposta immediata ai fini della sopravvivenza. Purtroppo molto spesso la vergogna è anche il vissuto penoso di genitori che hanno avuto un figlio “difettoso”. La conseguenza di questa vergogna è che i genitori possono essere indotti a nascondersi e rinchiudersi nel loro dolore. Ma che colpa ne hanno i genitori se il proprio figlio è venuto al mondo così? In realtà nessuna, non possono farci niente, non è dipeso da loro, anzi se avessero potuto avrebbero sicuramente evitato il problema. Allora perché scatta la vergogna? Scatta per il disagio relativo al possibile giudizio degli altri, anzi per il pregiudizio: questo bambino è fuori norma, ci pone dei problemi che la maggioranza non pone. In realtà, con il termine maggioranza non si rappresenta tutta la popolazione, ma solo la fetta numericamente maggiore. Ma se la maggioranza della popolazione in Italia è di carnagione bianca non vuol dire che gli individui di carnagione bruna o giallastra siano fuori norma. Se la maggioranza della popolazione cammina senza bastone non vuol dire che sia fuori norma chi a seguito di una brutta caduta ha bisogno di stampelle. Se la maggioranza della popolazione riesce ad affrontare una rampa di scale senza alcun problema, non vuol dire che una mamma con passeggino sia fuori norma perché non ci riesce. Essere parte di una minoranza non significa essere fuori norma, perché la “norma” comprende tutti: maggioranza e minoranze. La “norma” contiene tutta la popolazione, in quanto normalmente nella popolazione ci sono soggetti con la carnagione chiara, bruna o giallastra, soggetti deambulanti con e senza stampelle, mamme con passeggini e carrozzine.
Nei paesi anglosassoni da decenni non ci sono barriere architettoniche perché si costruisce “a norma di legge” a favore di tutta la popolazione, non solo di alcuni che sono “abili” nel muoversi: se è normale che ci siano persone con difficoltà temporanee o persistenti di spostamento allora deve essere normale che non ci siano ostacoli per nessuno. In questi termini il problema della vergogna si ribalta: non sono i genitori a doversi vergognare di qualcosa che non è dipeso dalla loro volontà o dalla loro capacità, semmai sono le strutture, le amministrazioni, i professionisti a doversi vergognare se non rispondono ai bisogni dell’intera popolazione, proprio perché in virtù del ruolo e delle mansioni di servizio e cura hanno il dovere di farlo, hanno scelto di farlo, sono pagati per farlo. La vergogna è giustificata solo quando non si fa qualcosa che si era in grado o in condizione di fare per gli altri e non si è fatto.
Soltanto se i genitori prendono coscienza che la vergogna non è un’emozione che appartiene alla loro storia singola di genitori, riusciranno a convogliare tutte le loro energie migliori per i bisogni del proprio bambino, che seppure difettoso nelle forme o nelle funzioni è “normalmente figlio” e come tale ha bisogni, desideri, sogni, emozioni, aspettative che attendono di essere riconosciuti. Nessuno meglio di loro saprà combattere con tenacia e passione per il proprio figlio, per il suo diritto all’esistenza, alla integrazione, allo sviluppo, per il suo benessere. Vergogna può esserci per un genitore solo se viene meno al proprio ruolo genitoriale.’
Vi lascio con due approfondimenti video dal TED:
• Il prezzo della vergogna di Monica Lewinsky, perché chiunque patisca vergogna e pubblica umiliazione deve sapere che si può sopravvivere. Meritiamo tutti compassione, e di vivere sia online che offline in un mondo più compassionevole.
• La vergogna della madre di Dylan, uno dei due giovani attentatori del massacro di Columbine: la vergogna di essere chiamata una madre terribile o una persona disgustosa, un accorato invito all’ascolto e a non smettere mai di voler conoscere la verità.