Avere 30 anni nel 2016: le tre cose che ho capito della mia generazione

img_2394Nel corso di quest’anno che sta per terminare siamo stati chiamati con tanti nomi. Ci hanno definiti la generazione “a metà del guado”. Quella degli eterni giovani che hanno imparato a stare “a proprio agio nel disagio”. Ma anche quella dei “precari a vita”. Raramente si parla bene di noi. Spesso veniamo compatiti. Qualche volta giustificati. Quasi mai capiti.

Oriana Fallaci in Se il sole muore scrisse che i trent’anni sono stupendi perché “è finita l’angoscia dell’attesa, non è incominciata la malinconia del declino, perché siamo lucidi, finalmente a trent’anni”. Ma cosa significa davvero avere 30 anni oggi? Io ho provato a mettere in fila quello che ho capito (a fatica) sulla mia generazione nel corso di questo ultimo anno e l’ho condensato in tre pensieri.

Siamo la generazione dei “coinquilini forzati
Siamo quelli che nonostante il lavoro e i primi capelli bianchi continuano a dover dividere le spese di casa con dei semi-sconosciuti come quando andavano all’università. A tenerci lontani da un dignitoso bilocale (ma a volte anche da un più umile monolocale) sono i nostri stipendi e il mercato immobiliare. Le stime dicono che nelle grandi città per andare ad abitare da soli servirebbe uno stipendio di circa 2000 euro. Se vi sembra una cifra eccessiva provate ad aggiungete agli 800-900 euro di un affitto medio (per un piccolo bilocale) a Roma o Milano, le spese per luce, gas, rifiuti, internet, mezzi pubblici, supermercato. La somma è una cifra ben più alta degli stipendio dei trentenni italiani che, secondo i dati dell’osservatorio Jobpricing, sono tra i più bassi d’Europa, tanto che la percentuale di under 35 sotto la soglia di povertà è quasi raddoppiata nel corso degli ultimi vent’anni.

Siamo la generazione dei diritti perduti
Visto che il lavoro scarseggia, i pochi “fortunati” che hanno un’occupazione (più o meno) fissa cercano di tenersela stretta in ogni modo. Anche rinunciando a chiedere ciò che spetterebbe loro di diritto, comprese ferie, permessi per malattia, maternità, straordinari pagati, contratti regolari e pensioni. A dirlo è stato anche il presidente dell’Inps Tito Boeri che, lo scorso aprile, ci ha definiti “la generazione perduta” tra disoccupazione sempre più alta, lavoro sempre più frammentato e una pensione che molto probabilmente non arriverà mai. Eppure quello che passa all’esterno è che non abbiamo abbastanza forza per “imporci nel discorso pubblico”, per scrivere “una narrativa generazionale”. Ma come si può far sentire la propria voce a livello politico se nel nostro quotidiano siamo stati costretti alla rinuncia e al silenzio?

Siamo la generazione con la valigia in mano
Abbiamo sempre la valigia di fianco al letto e non solo perché ci piace viaggiare. Ce l’abbiamo perché non abbiamo alternativa, perché la precarietà dai contratti di lavoro ci è entrata dentro fino alle ossa. Il rapporto Istat del 6 dicembre 2016 sulle migrazioni internazionali parla di “quasi 23 mila” (+13% sul 2014) italiani laureati che hanno lasciato il Paese nel 2015, pari al 30,8% del totale degli emigrati . E si tratta di un fenomeno che dopo la crisi economica iniziata nel 2008 ha mostrato un trend di costante crescita.
Ma spostarsi continuamente significa, per molti, non sentirsi mai a casa e ritrovarsi a canticchiare tra sé, a ogni nuova ripartenza, “Country roads, take me home/ To the place I belong”.

Quando avevo quindici anni guardavo i trentenni e mi sembrava che avessero già trovato un loro posto nel mondo. Oggi guardo me e i miei coetanei e penso che la maggior parte di noi quel posto lo sta ancora cercando. L’augurio per questo anno che sta per iniziare è perciò quello di vedere finalmente la vetta dopo tanto cammino.