“Ma non dovevi stare lì cinque minuti?”. Siamo alle solite: mia moglie mi sgrida ancora. Questa volta perché mi sono intrattenuto troppo in camera del piccolo. D’altronde ha dieci anni e può leggere da solo. Ed è quanto voglio che faccia, spingendolo a prendere in mano libri, fumetti e tutto ciò che sia non elettronico e lo diverta. Eppure è evidente quanto gli piace se sono io a raccontargli storie. Storie di ogni tipo: racconti che rielaborano le fiabe di Andersen così come i racconti di Jules Verne, le vite dei grandi condottieri romani, come dei protagonisti dell’éra delle Signorie italiane, la fantascienza, le cronache storiche ma anche la conquista del West, la ricostruzione di Milano nel dopoguerra, le rivoluzioni delle mille start-up tecnologiche e poi il grande classico: le carriere degli sportivi, ossia le mirabolanti imprese di Johann Cruiff e Diego Armando Maradona, le vittorie di Jesse Owens a Berlino e il trionfo di Mei, Cova e Antibo protagonisti del mezzofondo italiano.
Ebbene sì, lo confesso: sono un narratore seriale. Adoro accompagnare verso il sonno mio figlio, e prima di lui mia figlia oggi sedicenne, popolandone immaginario alle soglie della notte con le vicende che a mio insindacabile giudizio sono le più idonee a formarsi uno spessore emotivo, etico, culturale, insomma quel bagaglio culturale da assorbire in modo quasi inconsapevole che lo accompagni verso l’età adulta. Esagero? Forse sì, ma la vera verità è che non riesco a fare altrimenti. A me piace raccontare storie e la soddisfazione che prova lui per quei minuti (incalcolabili, in ogni senso) che riusciamo a trascorrere insieme a fine giornata, è una gioie della vita cui è difficile rinunciare. I viaggi di lavoro sono un tormento quasi esclusivamente perché privo la figliolanza del mio accompagnamento verso la notte; e me stesso di un ruolo cui mi sento legato indissolubilmente.
Tutto è cominciato con la figlia grande. Ricordo ancora le decorazioni della sua cameretta, i coniglietti che correvano lungo le pareti, nella casa dove abitavamo prima. Un altro contesto per la stessa scena: io seduto su uno sgabello a sussurrare vicende magiche di fate, incantesimi, animali fantastici e coraggiosi avventurieri. Fino alla nascita di Scoiattolo Tommy. Scoiattolo Tommy è in effetti un’invenzione di mia moglie (almeno lei sostiene così, io non ricordo con precisione ma a me va bene anche così). Nelle lunghe sere d’inverno in un palazzo milanese degli anni 30, Scoiattolo Tommy ha danzato, scherzato, giocato, corso e cantato dietro alle palpebre di mia figlia, finché non si addormentava. Il personaggio inventato in casa lo Conte non è (ancora?) diventato un personaggio dei fumetti popolare come Geronimo Stilton, ma tutt’ora gode di grande popolarità anche nel palazzo più recente in cui viviamo ora. Confesso che una certa predisposizione per la narrativa me l’hanno lasciata gli anni di liceo e la Laurea in Letteratura italiana moderna e contemporanea, con tutti quei seminari sulla Narratologia e la Semiotica, che mi hanno costretto a stimare nei cassetti block notes con incipit, sinossi, racconti, scalette varie che un giorno, forse, usciranno fuori.
DI Scoiattolo Tommy ho da subito avuto chiaro cosa non doveva essere: un leader psicotico e disadattato come invece molti leader politici (e non) si rivelano essere. Epici i suoi salti di ramo in ramo per correre in soccorso del castoro che sta per essere travolto dall’arrivo della piena del fiume; oppure la sua infaticabile raccolta di ghiande, per la sua famiglia e per quella dei più bisognosi, in vista di un inverno che si preannuncia particolarmente rigido. Figlio unico di genitori che a stento tengono a freno la loro ansia per le scorribande del figliolo nel Bosco sulla Collina, Scoiattolo Tommy è adorato dai suoi amici: per la sua naturale gentilezza, la sua disponibilità ad aiutare gli altri, a soccorrere i bisognosi e zittire gli arroganti. Insomma un leader “buono” e dotato di un carisma pieno di antica pietas: l’amico, il figlio, il vicino che tutti vorrebbero avere. Un modello, insomma, ma che man mano che i figli crescevano ha iniziato a essere un po’ meno perfettino e a sbagliare un po’ di più; giusto per non diventare troppo antipatico agli occhi di chi crescendo deve inevitabilmente affrontare gli errori della vita.
Di recente Scoiattolo Tommy ha preso qualche insufficienza a scuola, sbaglia un rigore nella finale del Campionato di Calcio del Bosco, casca in terra mentre corre lungo il sentiero sulle collina. Ma ogni volta si rialza, va avanti, tiene duro: cerca di capire dove ha sbagliato e va avanti. Probabilmente finirà presto questa Tommeide (la grande ora la definisce così, paragonandola alle serie tv che segue online): l’immaginario del piccolo sarà popolato presto da altre immagini ben più seduttive e da narrazioni più affascinanti (l’importante è che non siano videogiochi di violenza, lo sport può andare…). Il più è fatto: la personalità di un bambino si determina entro il 2/3 anno di vita e il suo immaginario entro l’adolescenza. Poi i figli se li prende il mondo e il nostro ruolo diventa finanziario e, a volte, esornativo (qualche selfie, se si concedono…). Ma chissà: magari Scoiattolo Tommy potrà risorgere in futuro, tra qualche decennio, quando toccherà ad altri raccontare storie e ad altri ascoltarle.
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