Dalla penombra di un’ampia capanna ad anfiteatro, invasa da una pioggia di riflessi luminosi, ci appare avvolto di luce un ragazzino (o forse è uno spirito?). È un indigeno Yanomani e vive tra il Rio delle Amazzoni e l’Orinoco in una simbiosi con la natura tale da fargli dire: “Noi non esistiamo fuori da questa foresta.” È uno degli inaspettati incontri che ci propone la VII edizione del Festival della fotografia etica, a Lodi fino al 30 ottobre durante i fine settimana. Lo scatto appartiene allo splendido reportage Custodi della foresta, dedicato dalla brasiliana Claudia Andujar a questo popolo che lotta dagli anni ’70 per il diritto a vivere nella propria terra, difendendola dalla rapacità di chi vuole devastarla per sfruttarne le succulente risorse minerarie.el
Per un mese Lodi apre palazzi storici ed eleganti chiese per ospitare diverse mostre, cui si affiancano, secondo un collaudato schema, caffè, biblioteche e librerie, scuole, trattorie e negozi, che accolgono numerose piccole esposizioni in un vitalissimo circuito OFF del Fuori Festival, trasformando la città in un grande fotolaboratorio.
Sono in imbarazzo nello scegliere di cosa parlare perché molti sono i lavori di grande forza e bellezza, ma non si può trascurare C.A.R. del francese William Daniels sulla Repubblica Centro Africana, dilaniata da una feroce guerra intestina dal 2013. È difficile dimenticare l’uomo intento a setacciare il fiume in cerca di oro: la pelle nera segnata da innaturali chiazze bianche, gli abiti della stessa tinta giallastra delle acque dove si mescolano fango e oro, lo sguardo fermo. Il racconto di Daniels è costruito secondo la grammatica del grande reportage classico: la composizione equilibrata, l’accordo dei colori, la sintesi formale costruiscono inquadrature nitide, dove l’armonia non è che l’altra faccia della potenza espressiva. Foto dopo foto ci immergiamo con la mente e con il cuore nella realtà di questa nazione e avvertiamo il sapore dell’aggettivo “etico” in fotografia, quando questa diventa – come scrivono i curatori – “strumento di comunicazione e conoscenza”.
Ma la fotografia, come ogni arte, è un melograno di chicchi, ciascuno con un gusto differente. Francesco Comello in Isola della Salvezza usa un bianco e nero limpido e intenso per raccontarci la comunità spirituale della russa Yaroslav, una sorta di laico monastero / collegio che accoglie ragazzi e ragazze per educarli secondo i valori tradizionali. Comello ci fa scoprire un altro volto della moralità del fotoreporter: non giudica ma osserva, si prende il tempo necessario a entrare in sintonia con le persone e infine ce le mostra, attraverso un velo di riserbo.
Morti ammazzati sui selciati dell’Honduras – nel 2011 il paese più violento al mondo – sangue, volti disperati ci aggrediscono invece nei bianchi e neri sporchi, talvolta sfocati o deformati dello spagnolo Javier Arcemillas (Latidoamerica): è uno stile urlato, militante, per scuoterci dalla nostra apatia, spettatori ingozzati quotidianamente da centinaia di immagini che dimentichiamo dopo qualche secondo.
Mark Peterson ricorre invece, in Political theatre, alla deformazione grottesca come antidoto all’ipocrisia mediatica della comunicazione elettorale americana: i suoi scatti teatralmente caricati squarciano la scenografia del politically correct per “svelare la nuda e cruda ambizione per il potere.”
Nancy Borowick infine tocca un argomento drammatico in A Life in Death, reportage sulla malattia e la morte per tumore di entrambi i genitori, a un anno di distanza l’uno dall’altro. Non è facile accostarsi a queste immagini, ma lo sguardo di Nancy sa andare oltre il dolore, per cogliere il coraggio, le risate – la madre che lava i piatti indossando una vistosa parrucca bionda per nascondere la caduta dei capelli –, la gioia, l’amore che trovano spazio comunque, per sentire la dolcezza della vita anche nell’imminenza della fine.