Mi conviene tornare al lavoro dopo la maternità? Se ci metto le spese di trasporto, il costo di una babysitter, e poi magari del nido privato perché non c’è altro posto, la fatica di tornare a casa e trovare tutto da fare, quasi quasi non conviene. Questo è un argomento ricorrente, nei luoghi – anche virtuali, ad esempio i forum – dove le donne, neo mamme, si trovano a discutere.
“Alle madri con bassi salari non conviene lavorare” – Questa affermazione (noi, nel titolo, l’abbiamo usata aggiungendo un punto di domanda) – compare nello studio “Famiglia, lavoro, gender gap: come le madri lavoratrici conciliano i tempi” realizzata dall’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro e pubblicata in occasione del Festival del Lavoro 2016 a Roma, alla fine di giugno.
Un (altro) fattore che incide quasi esclusivamente sul tasso d’occupazione femminile è il costo del lavoro domestico e per la cura dei figli, svolto gratuitamente dalle madri, che dovrebbe invece essere pagato nel caso la donna decidesse di lavorare: infatti, le donne che si aspettano di guadagnare uno stipendio più alto delle spese che dovrebbero sostenere per i servizi sostitutivi del lavoro domestico e di cura dei familiari sono potenzialmente più propense a lavorare, viceversa alle madri meno istruite e con minori qualifiche professionali, che hanno un’aspettativa salariale più bassa, non conviene lavorare dal momento che il costo dei servizi sostitutivi rischia di essere più alto del salario che possono guadagnare, a meno di disporre di una rete familiare di care giver.
Il costo dei servizi sostitutivi del lavoro domestico e di cura dei bambini, in assenza di nonni o di altri familiari, è pari a circa 500 euro al mese. Questa tesi è confermata dall’analisi del tasso d’occupazione femminile per titolo di studio: cresce con l’aumento del livello d’istruzione, dal momento che è molto probabile che a titoli di studio più alti corrispondono anche salari più elevati, che consentono di pagare più agevolmente i servizi di cura dei bambini. Infatti, il tasso di occupazione di una madre con al massimo la licenza media diminuisce in modo drammatico dal 45% nel caso la lavoratrice abbia un figlio al 36,7% con la nascita del secondo figlio, al 26,4% con il terzo figlio e al 18,6% con quattro o più figli. Anche per le madri diplomate il tasso di occupazione diminuisce drasticamente dal 64,6% (1 figlio) al 43,2% (4 figli e più).
Per le laureate la nascita di uno o tre figli determina il fenomeno contrario perché aumenta il tasso di occupazione dal 79,8% all’81%, probabilmente perché aumenta il bisogno di un reddito da lavoro per far fronte all’incremento significativo delle spese per mantenere i figli, a fronte dell’aspettativa di una retribuzione elevata che copre queste spese. Solo con 4 figli e oltre diminuisce leggermente il tasso di occupazione delle laureate. La differenza tra il tasso di occupazione delle donne con al massimo la licenza media e di quello delle laureate raddoppia, come è del resto atteso, con l’aumento del numero dei figli e delle spese per i l loro mantenimento, da 34,9 a 54,6 punti percentuali.
Il nostro rapporto – spiega Marina Calderone, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro e del Comitato unitario delle Professioni – mette in evidenza come in Italia i genitori che lavorano pagano il prezzo più alto per conciliare vita famigliare e lavoro. In presenza di salari bassi, soprattutto per le madri, è quasi più conveniente non lavorare. Questa scelta incide fortemente sul tasso degli inattivi, ovvero quei soggetti che non lavorano e non cercano nemmeno un lavoro. In Italia circa il 35,6% delle mamme con figli minori sono inattive. Molte di queste non cercano lavoro per poter accudire i figli, perché nella zona in cui vivono i servizi di supporto alla famiglia, compresi quelli a pagamento come baby-sitter e assistenti per anziani sono assenti, inadeguati o troppo costosi. Nella fascia di età che va dai 25 ai 54 anni ci sono 1,6 milioni di mamme occupate con un lavoro part time. Di queste, quasi il 44% ha scelto il tempo parziale per prendersi cura dei figli. Tutte queste percentuali denotano la scarsa capacità del nostro Paese di rispondere in modo concreto al problema dell’occupazione femminile e della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Siamo, infatti, il fanalino di coda nelle graduatorie europee sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro.
È prioritario, di conseguenza, ridurre il costo dei servizi di cura per l’infanzia attraverso agevolazioni fiscali e soprattutto con misure più ampie come quelle di welfare aziendale che prevedano la partecipazione ai costi da parte delle imprese, rivolte innanzi tutto alle fasce di lavoratori con più bassi livelli d’istruzione e quindi di reddito.
Ma è sufficiente?
In realtà i dati mostrano che solo 21 madri su 100 non lavorano e non cercano lavoro a causa dell’inadeguatezza dei servizi di cura dei bambini e degli anziani non autosufficienti. Delle circa 900 mila madri che sono inattive perché devono prendersi cura dei figli o di persone non autosufficienti, solo il 21% dichiara che non ha cercato lavoro perché nella zona in cui vive i servizi di supporto alla famiglia, compresi quelli a pagamento (baby-sitter e assistenti per anziani), sono assenti, inadeguati o troppo costosi e il 79% afferma che non ha cercato lavoro per altri motivi.
Di conseguenza, “solo” circa 190 mila madri inattive potrebbero rientrare nel mercato del lavoro se i servizi per l’infanzia fossero più diffusi e meno costosi.
La scelta di non cercare un’occupazione da parte della grande maggioranza delle madri è volontaria, anche se in alcuni casi si viene condizionati da stereotipi di genere e da motivi culturali. Il lavoro ha un forte valore sociale, ma immaginandolo all’interno di una scala dei valori, viene superato dalla maternità. Molte donne, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno, rinunciano al lavoro per diventare mamme. Le motivazioni possono essere quelle che abbiamo visto finora, cioè servizi di cura per l’infanzia inadeguati, ma da alcuni studi è emerso che la decisione di non lavorare derivi anche dalla convinzione che la qualità dell’assistenza che una madre può dedicare ai figli non è comparabile con quella di un asilo o di una babysitter o, addirittura, dal confinamento del ruolo delle donne fra le mura domestiche. Queste convinzioni incidono fortemente sulla scelta di non lavorare. Se a queste aggiungiamo, poi, l’insufficiente capacità d’intermediazione dei servizi pubblici e privati del lavoro, le differenze salariali di genere che vedono le retribuzioni delle madri inferiori di un terzo rispetto a quelle dei padri e lo scoraggiamento, si ottiene un quadro chiaro delle motivazioni che inducono a rinunciare al lavoro. Ma non dobbiamo dimenticare che rinunciare al lavoro significa anche rinunciare alle relazioni sociali, all’indipendenza e alla dignità, ma anche mettere in difficoltà la famiglia stessa. In questo senso diventa anche importante investire nella formazione. Un dato interessante emerso dal nostro rapporto è quello che vede i genitori che hanno fatto figli negli ultimi due anni più istruiti e maggiormente occupati. Il 40% di questi esercita professioni altamente qualificate e per questo meglio retribuite.
Del resto, anche nel resto dell’Unione europea il 50% dei bambini sotto i tre anni è assistito dai genitori, e solo il 28% è affidato agli asili nido. L’influenza di motivi culturali nella decisione di non lavorare in presenza di figli dei figli emerge anche dall’analisi delle risposte delle donne per cittadinanza: il 77% delle madri italiane dichiara che non ha cercato lavoro per altri motivi, diversi da quelli dell’inadeguatezza dei servizi di cura per l’infanzia e le persone non autosufficienti, ma una percentuale maggiore di 7 punti percentuali si registra tra madri immigrate extracomunitarie (84%) e, in misura minore, tra le straniere comunitarie (81%).
Dunque, come prendere una decisione? Aggiungendo elementi per così dire “immateriali”, ma da tenere presenti.
- L’infanzia non dura per sempre: quando il bambino va all’asilo e ancor più a scuola il tempo per lavorare fuori casa c’è. Può convenire mantenere il posto di lavoro anche se per un anno si va quasi in pari con le spese, perché rientrare è più difficile
- Il lavoro non è solo questione di stipendio: permette di confrontarsi con altre persone fuori casa, di mantenere relazioni sociali e di evitare il rischio di isolamento
- Autonomia: viene spontaneo incrociare le dita e sperare che vada tutto sempre bene, ma anche solo un divorzio può mandare in crisi il bilancio familiare, per non parlare di un licenziamento, una cassa integrazione, l’apparecchio e gli occhiali per il figlio che cresce.
Le caratteristiche della famiglia italiana di oggi sono profondamente cambiate. Il nucleo familiare classico, costituito generalmente da una coppia con figli, è in diminuzione mentre aumenta in maniera consistente il numero delle persone sole (+37%): 1 famiglia su 3 oggi è composta da un genitore single. Questo nuovo modello familiare comporta dei profondi mutamenti demografici e sociali come l’invecchiamento della popolazione, l’aumento delle separazioni e dei divorzi e la crescita sostenuta di cittadini stranieri che vivono in famiglie prevalentemente unipersonali come assistenti o badanti. Ma al tempo stesso comporta delle esigenze personali che possono essere soddisfatte solo da un sistema di welfare aziendale che riconosca in modo gratuito i servizi necessari. Gli interventi a sostegno delle famiglie, introdotti dal Legislatore, possono essere d’aiuto. La Legge di Stabilità ha, ad esempio, riconfermato il bonus bebè per le neo mamme, per i genitori adottivi e affidatari per gli anni 2016 e 2017. Si tratta di un contributo mensile di 80 euro che raddoppia per chi ha un reddito ISEE fino a 7.000 euro. Un’altra novità, che potrebbe essere inserita nella prossima Legge di Stabilità, è il bonus bebè fino al 5° anno di età del figlio ed un possibile raddoppio dell’assegno di natalità del 2017 per il primo e secondo figlio. Questi interventi, uniti a quelli riguardanti le politiche attive del lavoro, vanno nella direzione giusta, ma non sono sufficienti se le donne continuano ad essere più penalizzate rispetto agli uomini per il lavoro che svolgono o per il luogo in cui vivono.