Mi chiamo Beatrice, ma tutti mi chiamano Bebe, ho diciannove anni, e sono una schermitrice.
Una schermitrice senza braccia e senza gambe, per la precisione. A undici anni me le hanno tagliate per colpa di un cosino piccolo piccolo ma feroce, con un nome quasi buffo, meningococco. Mica potevo dargliela vinta, a quel cosino lì. Io volevo la mia vita. Sono una ragazza fortunata, quando lo dico vedo la gente sgranare gli occhi, eppure io sono davvero fortunata. Perché sono viva e respiro. Perché faccio un sacco di cose, ma nessuna da sola, c’è la mia famiglia con me. E perché sono capace di sognare in grande.
E adesso sono a un secondo da un mio sogno grande, la medaglia d’oro olimpica. A Rio sono venuta per vincere, quattro anni fa a Londra ho fatto la tedofora, ma ci sarei andata a portare asciugamani anche se ero troppo piccola per gareggiare. Ho cominciato allora il conto alla rovescia per oggi. Volete sapere quanti secondi ci sono in quattro anni? Deve passarne solo un altro, uno solo, una solo stoccata, sono già en garde, attendo l’allez dell’arbitro.
E penso agli altri secondi, quelli che sono scivolati via, uno dopo l’altro, nei 104 giorni in cui sono restata in ospedale, 104 giorni che hanno diviso la mia vita in modo inesorabile tra un “prima” da ragazzina come tante e un “dopo” dove ho dovuto imparare tutto di nuovo, dal lavarmi i denti a mangiare con le posate. Quando ho detto ai medici che avrei voluto riprendere a tirare di scherma, diciamo che mi hanno sputato in un occhio. Non si era mai vista una schermitrice amputata di quattro arti. E allora? I sogni grandi costano come quelli piccoli, no? Ma quando si avverano…
E oggi sono qui.
Allez.
Un secondo.
E il mio sogno si avvera.