Sediamo al G7. Siamo tra le prime sette potenze economiche mondiali, e poi cadiamo proprio sui temi dell’infanzia. Va bene essere distanti dalla Danimarca o dalla Finlandia, il welfare scandinavo si sa non ha rivali. Ma fare anche peggio della Romania o della Grecia, questo sì che fa riflettere. Eppure il dato è chiaro: sulla disuguaglianza infantile in Europa siamo penultimi, a salvarci dalla maglia nera è solo la Bulgaria. E la Turchia ci tallona da vicini. Ma cosa si intende esattamente per disuguaglianza infantile?
Si intende la capacità di includere tutti i bambini nella fascia del benessere, ci spiega l’Unicef: fino a che punto i paesi ricchi permettono che i bambini più svantaggiati rimangano indietro rispetto alla media dei bambini di quello stesso paese? E l’Italia, ahimé, non è tra quelli virtuosi. Non (solo) perché non accoglie i piccoli profughi, ma perché non aiuta come dovrebbe gli stessi bambini che nascono sul proprio territorio.
Andiamo con ordine. Prediamo il divario di reddito: i bambini delle famiglie più povere del nostro paese hanno possibilità economiche del 60% più basse di quelle della famiglia media italiana. In Norvegia, per intendersi, la ricchezza dei poveri è più bassa solo del 37% di quella media.
Sul gap culturale andiamo un po’ meglio, in classifica siamo 22esimi su 37. E per una volta siamo più in alto della Germania (28esima) e della Francia (35esima). Quanto a tutela della salute dei più piccoli, invece, i continui tagli alla Sanità pubblica hanno fatto scivolare l’Italia sul fondo della classifica: un terzo di nostri bambini (al pari dei bambini della Romania, della Turchia e della Bulgaria) si ammala molto di più della media nazionale per la mancanza di cure e di prevenzione adeguate.
Tutto questo ha un prezzo anche psicologico: il 28% dei bambini italiani con livelli di soddisfazione nei confronti della vita più bassi finisce anche col restare indietro rispetto ai propri coetanei. A che serve allora far parte del G7 se non sappiamo garantire un futuro a tutti i nostri figli?