Quello che è accaduto nelle ultime settimane ha riportato la Libia sotto i riflettori: ma ci sono persone che non hanno mai potuto smettere di pensare a quel Paese, a quello che lì hanno perso, alla solitudine che hanno trovato qui, in Italia. Maria è una di loro, e questa è la sua storia, così come me l’ha raccontata.
Mi chiamo Maria, e ho 57 anni. Come si può ricominciare a questa età, quando hai imparato a soffocare le umiliazioni, e a vivere con la paura di ciò che il futuro avrà in serbo?
Sono la ex titolare di una società per più di trent’anni nel settore metalmeccanico ed elettrico a servizio dell’industria siderurgica, petrolchimica, metallurgica e civile in genere. La nostra attività si era sviluppata in Italia, in Europa e in altri Paesi. Poi, a causa della crisi che si stava profilando qui, la nostra società ha deciso di concentrare l’attività proprio in Libia, un Paese in espansione e pieno di risorse. Nel 2006 venne costituita una branch a Tripoli che ci consentiva di operare direttamente con società del governo libico.
Nell’agosto 2008 lo Stato italiano aveva sottoscritto con la Libia il Trattato di Amicizia, partenariato e cooperazione: un vero e proprio salto di qualità per le relazione dei due Paesi, tanto da far diventare il 30 agosto – anniversario della firma – la “Giornata dell’Amicizia italo-libica”. In sostanza venivano abrogate le disposizioni discriminatorie dell’ordinamento libico che riguardavano vincoli e limiti applicati alle sole imprese italiane, mentre venivano incentivate le attività imprenditoriali italiane. L’art. 4 del trattato cita un diritto al risarcimento di danni e perdite provocati da “ qualsiasi conflitto armato o stato di emergenza, di ribellione o insurrezione o altri avvenimenti simili”.
La nostra società effettuò ingenti investimenti: sul posto operai e tecnici, manodopera specializzata italiana e straniera per sviluppare le commesse. Altre imprese italiane erano state coinvolte per il noleggio dei mezzi particolari. A fine del 2010 avevamo un ufficio di rappresentanza a Tripoli e una sede operativa a Misurata, con un campo base che ospitava i tecnici e i lavoratori, tre capannoni adibiti a deposito e a lavorazioni meccaniche, un parco macchine per il trasferimento del personale e svolgere le lavorazioni.
Nel febbraio 2011, dopo la Tunisia e l’Egitto, anche la Libia venne coinvolta dalla Primavera Araba. In pochi giorni ci trovammo in mezzo alla rivoluzione e fummo costretti ad abbandonare i cantieri e ad organizzare, in via di assoluta emergenza, il rientro del nostro personale in Italia o negli altri Stati di origine. I viaggi furono un incubo: i ribelli avevano sabotato l’aeroporto di Misurata ed era impossibile il trasferimento a Tripoli, peraltro vivamente sconsigliato dall’Ambasciata Italiana.
La nostra prima preoccupazione era di portare in salvo la “nostra gente”, per il resto eravamo convinti di avere il totale supporto del nostro Governo e che nel giro di qualche mese le cose si sarebbero sistemate. Tutti i collaboratori rientrarono, mentre tutte le attrezzature rimasero alla mercé dei rivoluzionari. I nostri mezzi furono usati dai rivoluzionari: sui pick-up furono montate le mitragliatrici; le autogru utilizzate come lancia razzi; il campo base come primo soccorso.
In marzo 2011 iniziarono i raid aerei e ci convincemmo che il rientro diventava sempre più problematico. Inviammo ai clienti libici le lettere di sospensione dei contratti per causa di forza maggiore, con conseguente blocco dell’operatività bancaria. Questo ha definitivamente bloccato l’attività e il pagamento dei crediti vantanti direttamente o indirettamente dalla Libia. La crisi si riversò anche sulle altre attività che avevamo in Italia e all’estero. In aprile venimmo informati che lo Stato si stavano muovendo. La Commissione Affari esteri approvò una risoluzione “Sulla tutela delle imprese italiane in Libia, Tunisia ed Egitto”. Nei mesi e anni successivi si susseguirono Interrogazioni, Interpellanze, proposte di Legge; sarebbe bastata ad esempio la sospensione delle imposte per dare respiro alle aziende in difficoltà. Nulla di tutto ciò si è avverato.
Le Istituzioni si sono dimenticate di noi: solo nell’agosto 2011, dopo sei mesi dal rientro in Italia, la Camera di Commercio Italo Libica organizzò un questionario che consentì di avere i numeri (aziende e importi dei crediti e dei danni) per un possibile intervento che non è mai arrivato. La mia società, mentre attendeva un concreto aiuto, si vide costretta ad affidarsi a dei professionisti per avviare un progetto di risanamento e ristrutturazione del debito. Le spese per onorari e prestazioni lievitarono. Mentre lo Stato ci abbandonava, le Banche chiedevano la restituzione dei prestiti.
In giugno 2011 richiedemmo una transazione fiscale e depositammo una istanza al fine di evitare ulteriori fughe in avanti dei creditori e consentire una serena trattativa con gli istituti di credito e gli altri creditori coinvolti. In settembre, mentre attendevamo gli sviluppi delle proposte di legge riguardanti la Libia, il Tribunale della mia città rigettò l’istanza. Eravamo arrivati al capolinea: il tribunale con quell’atto decretò la nostra fine.
La nostra società era sul mercato nazionale e internazionale da più di 30 anni , abbiamo sempre onorato (anche nei momenti di difficoltà economica) gli impegni, siamo sempre stati rigorosi nel rispettare ogni legge. Così una azienda fallisce, nell’indifferenza delle istituzioni, per un conflitto che hanno voluto altri. Perché non eravate assicurati? Mi hanno chiesto. Perché confidavamo nel trattato firmato dall’Italia, e non siamo stati i soli: solo due aziende italiane su 130 fra quelle che operavano in Libia quandò iniziò la rivoluzione avevano firmato un contratto con Sace. I fondi congelati alla Libia non sono stati usati per ristorare i nostri crediti e liquidarci i danni subiti, ma per finanziare piste ciclabili e altre opere. Chi ha contribuito per anni alla crescita economica dell’Italia è stato dimenticato.
Oggi di Libia si torna a parlare, tragicamente. Il presidente del Consiglio Renzi ha dichiarato che l’anno scorso avevano sconsigliato di andare in Libia. Questo è vero: quando il 15 febbraio 2015 l’Ambasciata italiana ha lasciato quel Paese, la Farnesina ha divulgato la disposizione via email a tutte le aziende che lavoravano o che avevano interessi in Libia. Tra queste ci sono anche quelle che sono dovute fuggire nel febbraio 2011 allo scoppio della primavera libica e che hanno crediti da esigere in Libia.
Quello che è accaduto è che ogni azienda ha dovuto farsi carico singolarmente di seguire la sua pratica con l’assistenza dell’Ambasciata italiana. Si può solo immaginare come le piccole e medie imprese avrebbero potuto riuscire in questa impresa a dir poco impossibile. La necessità di incassare per non fallire e far fronte alle richieste dei creditori hanno costretto specialmente le piccole imprese, a muoversi singolarmente, con tutti i problemi che si possono immaginare. Questo è accaduto anche nel 2015, dopo che la Farnesina aveva sconsigliato di andare in Libia. Se il Governo italiano le ha abbandonate al loro destino a partire dal 2012, come fanno le imprese a cercare di incassare i crediti senza andare in Libia a loro rischio?
Vorrei che chi è sordo alle nostre grida di aiuto provasse quello che stiamo provando noi. Mi chiamo Maria, ho 57 anni e la mia azienda non esiste più.