Su Netflix ci sono due serie sul narcotrafficante colombiano Pablo Escobar. La prima, Narcos, più plastificata, all’americana quindi piena di manipolazioni mediatico-storiche, la seconda, Pablo Escobar – El patron del mal, pur essendo piena di ingenuità e cadute melodrammatiche proprie delle telenovelas sudamericane, ha una freschezza e una verità molto più profonde. In particolare quest’ultima non manca nel raccontare un rapporto fondamentale per la comprensione del protagonista: il rapporto con la madre.
La mamma di Pablo Escobar ricopre un ruolo fondamentale nelle scelte del figlio, è la mandante silente e nascosta di tutta la sua vicenda umana. La dinamica non è solo facilmente deducibile nel rapporto tra i due, è anche espressa in modo “pornografico” in un dialogo tra Pablo Escobar e sua madre: «Sono come tu mi hai costruito». La madre annuisce complice mentre il figlio dichiara guerra alla Stato colombiano che sta cercando di estradare i narcotrafficanti negli Stati Uniti. Il potere che Pablo Escobar ha costruito è mosso, intenzionato, voluto da quella donna che grazie al figlio è uscita dalla condizione di povertà. In questo senso è difficile immaginare una società non matriarcale: persino nei paesi in cui le donne vengono lapidate per adulterio è sempre e solo la donna che uccide l’altra donna, è la madre che da autorità al figlio umiliato di uccidere la giovane traditrice sulla pubblica piazza. Il velo stesso non è altro, a ben guardare, che un simbolo di sottomissione della giovane donna alla vecchia. Non è un caso se con i capelli bianchi le donne possano smettere di portare il velo. Il primato biologico della giovinezza e della bellezza femminile deve essere annichilito per lasciare che solo la donna vecchia gestisca il potere sociale.
Persino nei nostri consigli di amministrazione, dove le donne sembrano una negletta minoranza, il maschilismo degli uomini “al potere” è espressione di una cultura materna collegata con la madre di famiglia che li governa da casa. Direi che le donne faticano ad entrare nei CDA perché altre donne che hanno scelto di restare a casa governando nell’intimità il loro uomo di potere faticano ad accettare quelle che invece giocano un ruolo di prima fila.
Del resto se prima l’uomo aveva a disposizione un palco in cui essere protagonista assoluto, oggi, su quel palco, vuole recitare anche la donna. Penso non sia assurdo pensare che gli uomini che lanciano delle crociate contro le donne in azienda siano spinti dalle mogli, impazienti della vita tra le mura domestiche ma anche incapaci di pensarsi imprenditrici. La battaglia che dovremmo fare come donne, nella ricerca del protagonismo sociale, è quindi con altre donne: cambiare la mentalità delle madri che educano i propri figli, la mentalità delle mogli che governano i loro mariti. Non è detto poi che nel gioco della emancipazione il potere femminile ne guadagni, ma capire quali sono i pesi in campo è in ogni caso necessario per fare le dovute valutazioni.