Basta ai convegni di donne per le donne. Nel giorno dell’8 marzo non è certo un richiamo popolare, ma forse proprio oggi fra una mostra e un evento una riflessione in questa direzione può essere efficace. Gli studi continuano ripetere che le donne sono il 60% dei laureati, che sono mediamente più brave e che si laureano prima dei compagni. La professionalità e le competenze crescono eppure la crescita professionale fino alle posizioni apicali va a un passo molto più lento. E allora convegni, articoli, iniziative per capire le ragioni di questo ritardo e per trovare le soluzioni. Sul palco prevalentemente relatrici con qualche presenza maschile “illuminata”. In platea solo donne, la maggior parte delle volte, a parte qualche “panda” a fare la quota azzurra per l’occasione. E si finisce sempre a parlare di conciliazione e asili.
Per decenni sono stati incontri interessanti, di confronto, di riflessione e di crescita. Ma alla fine tutte queste iniziative non sono riuscite a fare la differenza se l’occupazione femminile è ancora al 47,5% contro una media europea del 59,6%, se la presenza nel management è ferma al 29% e quella nei cda è arrivata al 26,3% solo per la legge 120 del 2011 sulle quote di genere e se l’imprenditoria femminile in rete è limitata a poco meno del 15%. Certo la situazione nell’ultimo decennio è migliorata e lo dimostra anche lo scatto dell’Italia nella classifica del World Economic Forum, che nel Global Gender Index ci posiziona al 41esimo posto (quando solo nel 2012 eravamo all’80esimo). Il passo, però, resta ancora troppo lento e l’Italia non può più permetterselo se vuole tornare a competere sui mercati globali. Banca d’Italia aveva calcolato che con un’occupazione femminile al 60%, come fissato dagli obiettivi di Lisbona, il Pil crescerebbe del 7%. Troppo ambizioso? Forse sì, ma anche 50 punti base non sarebbero poco considerati i tassi di crescita dell’economia italiana.
In un Paese in cui le scelte si fanno in alcuni ambiti, se le donne restaranno fra donne non riusciranno mai a far sentire la propria voce. È necessario uscire dagli ambiti in cui le donne si sono chiuse, andarsi a sedere ai tavoli di discussione degli uomini. E portare a quei tavoli le competenze tecniche, professionali e di esperienza che le donne hanno e che di sicuro non possono emergere se restano relegate in ultima fila a parlare di conciliazione. Le donne sono in grado di parlare di finanza, di corporate governance, di impresa, di diritto, di ingegneria, di strategie e di visione per il futuro del Paese. Solo così non si potrà più dire “non ci sono donne competenti per quel ruolo”, solo così si potrà giocare una partita alla pari. E per ognuna che arriva all’apice ci sia un ascensore che discende per favorirne un’altra. Non perché è donna, ma perché lo merita.