“Per Natale adotta una panchina!”. Oppure un cane, un albero, una mucca, una foca, un parco! Su volantini, cartelloni pubblicitari o siti web si trova un po’ di tutto. Adozione è un vocabolo abusato, che ormai viene associato a qualsiasi cosa. Probabilmente perché fa breccia nel cuore della gente. Il termine, però, è troppo spesso usato a sproposito per convincere le persone a perorare qualsiasi causa senza pensare che, per un bambino adottato, imbattersi in questi slogan non è proprio una botta di autostima!
Mi è capitato a volte di incontrare persone che, di fronte alla mia famiglia evidentemente multietnica, mi dicessero orgogliose: “Anche noi abbiamo adottato un bambino africano! Gli mandiamo i soldi tutti gli anni con la tale associazione”. Non è esattamente la stessa cosa. Quella che, impropriamente, viene chiamata e reclamizzata come “adozione a distanza”, più correttamente è un “sostegno a distanza” o una “sponsorizzazione”. Adottare un bambino “a distanza”, infatti, è una contraddizione in termini, un evidente paradosso linguistico, mancando proprio l’aspetto di vicinanza, di affetto, di cura quotidiana che rende quel bambino figlio.
Adottare non è un atto caritatevole
Oltretutto l’ampio uso del termine adozione in questa accezione contribuisce involontariamente ad alimentare lo stereotipo che si ha di questa realtà: adulti buoni e generosi che aiutano poveri minori in difficoltà. E questi ultimi devono essere grati e riconoscenti per la buona azione ricevuta.
Adottare un bambino non è un atto caritatevole, né una buona azione. È come partorirlo. È una vera e propria seconda nascita per quel bambino e comporta l’instaurarsi di un rapporto di amore, accoglienza, protezione, cura che dura per tutta la vita.
E per il futuro, quando finalmente non sentiremo più la classica frase che quasi tutti rivolgono ai genitori quando incontrano per la prima volta una famiglia nata con l’adozione, “Che bella cosa che avete fatto! Che bravi che siete stati!”, sarà davvero il segnale che qualcosa è cambiato.