Lui lavora: tempo pieno, continuità, carriera. Quando è diventato padre, è stato a casa un giorno: poteva arrivare al massimo a due, ma se fosse stato un papà finlandese avrebbe avuto diritto a 54 giorni di congedo. Lei ha alle spalle due maternità, e adesso che i figli sono cresciuti c’è da badare ai genitori anziani: tutto lavoro non riconosciuto, non retribuito, che sottrae tempo ed energie all’impiego “ufficiale”.
La conclusione? All’interno della stessa famiglia, uomini e donne non sono poveri allo stesso modo, e fare la media significa non riconoscere le differenze che ci sono.
In sostanza, non si può conoscere la povertà delle donne se si guarda ai dati come si è fatto fino a oggi. La conoscenza del fenomeno povertà non può prescindere da un’analisi di genere. È una delle richieste che ActionAid – organizzazione internazionale indipendente impegnata nella lotta alle cause della povertà e dell’esclusione sociale – ha presentato ieri, nell’evento organizzato a Roma, presenti con Tito Boeri (Inps) ed Enrico Giovannini (Istat).
L’occasione, anche, per presentare i dati (racconti nella pubblicazione Italia e la lotta alla povertà), che contiene una sezione dedicata alle politiche contro la povertà femminile.
L’Unione europea, ad esempio, utilizza un indicatore chiamato Arope, calcolato a livello familiare e non individuale, secondo l’assunto che il reddito sia utilizzato equamente tra tutti i membri di una famiglia e ignorando possibili disparità nella sua distribuzione all’interno del nucleo. Così diventa impossibile valutare la diversa incidenza sulla popolazione femminile e maschile. “L’Italia dovrebbe farsi promotrice a livello europeo di iniziative volte a rilevazioni di dati su base individuale. Assicurare dati disaggregati per sesso e analisi del diverso impatto che le politiche hanno su uomini e donne può aiutare le politiche ad essere più “efficaci”, sostiene ActionAid. A questo vanno unite analisi delle politiche relative al lavoro di cura: “Arrivare a misure rivolte a una riduzione del carico di cura sulle famiglie attraverso servizi di cura adeguati e assicurare i servizi all’infanzia secondo standard europei di copertura del 33% dei bimbi 0-3 anni in Italia; attuare la riforma del congedo parentale, in modo che sia conveniente a livello economico sia quando ne usufruisce la donna che l’uomo”.
La maggior parte delle ricerche sulla povertà femminile in Europa accosta ai tassi ufficiali di povertà altri indicatori socioeconomici, relativi ad esempio alla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, agli scarti salariali di genere, all’accesso e utilizzo dei servizi per la famiglia. È uno sforzo fatto sia nel tentativo di superare i limiti insiti nei tassi ufficiali di povertà, sia per render conto della complessità della povertà femminile e dell’interdipendenza tra tale fenomeno e altri aspetti economici e, soprattutto, socioculturali. Gli studiosi insistono che servono nuovi indicatori, oltre a quelli calcolati su base familiare.
Un esempio viene dal Belgio, dove si è calcolato il tasso di dipendenza finanziaria, cioè il rischio di povertà che corre una persona se deve far fronte ai propri bisogni unicamente attraverso i propri mezzi economici, senza l’aiuto di altre persone. Calcolato sulla base dei dati ue-silc (European Statistics on Income and Living Conditions), l’esperimento ha portato a un’interessante conclusione: se calcolato a livello individuale, il tasso di povertà femminile risulta molto più alto di quello elaborato a livello familiare da Eurostat, mentre le variazioni del tasso maschile appaiono molto lievi. Si tratta di tentativi importanti di far emergere il diverso impatto della povertà su uomini e donne oltre i limiti delle metodologie di misurazione attualmente utilizzate.
Che cosa fare? A livello europeo le misure di reddito minimo garantito, che vengono erogate sulla base della valutazione del reddito familiare, possono, in alcuni casi e in concomitanza di altre variabili, risultare svantaggiose per le donne. Ad esempio, il vincolo all’accettazione di proposte di lavoro (Belgio) e, all’opposto, la possibilità di essere esonerate da tale vincolo quando si abbiano figli di età inferiore ai 3 anni (Francia), associati a una carenza di strutture per l’infanzia, possono portare a due esiti svantaggiosi: il primo all’esclusione dalla misura, la seconda alla trappola dell’inattività.
Altre variabili risultano invece favorevoli, ad esempio: l’esclusione dalla valutazione del reddito delle indennità di maternità in Lussemburgo; gli assegni familiari in Irlanda, Lussemburgo e Portogallo; gli assegni per i figli in Gran Bretagna. Altri paesi (Danimarca, Finlandia, Portogallo, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Belgio e Germania) con la misura di reddito minimo prevedono la possibilità di cumulare un reddito da lavoro, entro una soglia stabilita, allo scopo di incoraggiare il rapporto dei beneficiari con il mondo del lavoro10.
Quali misure in Italia?
In Italia ci sono due tipi di indennità: l’assegno al nucleo familiare e l’assegno ai nuclei con almeno tre figli minori. Entrambe le misure sono destinate alle famiglie con redditi bassi, ma con diverse categorie di beneficiari. Secondo ActionAid, i congedi hanno il vantaggio, rispetto ad altre misure di conciliazione, di poter incidere direttamente sulla suddivisione, attualmente non egualitaria, del lavoro retribuito e di quello non retribuito di cura.
Dei Paesi della Ue a 15 solo Germania e Irlanda non hanno congedi di paternità (ossia giorni riservati solo ai padri). La durata del congedo di paternità obbligatorio varia da paese a paese, il più corto è in Italia (1 giorno), il più lungo in Finlandia (fino a 54 giorni).Per quanto riguarda i congedi parentali, a oggi, in tutta l’Unione, i padri ne usufruiscono in misura molto minore rispetto alle madri.
Un recente studio commissionato dal Comitato per i diritti delle donne e la parità di genere del Parlamento europeo sottolinea che il grado di utilizzazione dei congedi familiari da parte dei padri è legato alla presenza di forti stereotipi di genere, ma in gran parte dipende anche dal livello dell’indennità di congedo rispetto alla retribuzione percepita: poiché nella maggior parte delle famiglie le donne rappresentano il genitore con retribuzione inferiore, laddove il tasso di compensazione del salario perso è minore, sono quasi esclusivamente le donne a usufruire del congedo. Se poi si guardia all’infanzia, la metà dei Paesi Ue non ha ancora raggiunto l’obiettivo europeo di presa in carico del 33% dei bambini fra 0 e 3 anni: la data prevista per questo traguardo era il 2002.