Perché la copertina del Time #nonbasta

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È la notizia “femminile” del momento: le donne che hanno lanciato il movimento #metoo sono la “persona dell’anno del Time”.

Ne diciamo tutto il bene possibile: avere la copertina di questa edizione del Time serve a proseguire il dibattito, a far restare ancora per un po’ sotto i riflettori un tema che già altre volte in passato aveva iniziato a circolare (vedi per esempio il caso Strauss Kahn), anche se meno viralmente e platealmente, per poi velocemente sopirsi sotto prioritá più notiziabili e immediate.

La campagna #metoo (2 milioni di tweet in 81 Paesi) ha avuto il grande privilegio di “piacere ai media”: la colorata rivolta finale di donne belle e meno belle, famose e non, che finalmente si alzano in piedi tutte assieme.

Ma ecco tre segnali da tenere d’occhio per evitare che il giusto entusiasmo generato dall’aver trasformato in moda un tema drammatico – farne una moda sembra infatti essere l’unico modo perchè qualcosa prima o poi arrivi anche ai fatti politici necessari a risolverlo – ci metta tranquille e tranquilli sul buon esito del movimento.

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1. La “persona dell’anno” del time si è chiamata “uomo dell’anno” fino al 1999 (18 anni fa) e su 81 copertine solo 4 sono andate a donne, di cui solo una nel terzo millennio (Wallis Simpson (1936); Elizabeth II (1952); Corazon Aquino (1986); Angela Merkel (2015)). In lizza quest’anno c’erano 7 uomini, due gruppi e una donna (Patty Jenkins, la regista di Wonder Woman). Il gruppo delle #metooers ha prevalso su Donald Trump (ancora! Era giá stato in copertina l’anno scorso) e Xi Jinping: uomini in corsa perché “comandano”, donne scelte perché “si difendono”.

2. In America le donne di colore fanno notare che questa campagna, iniziata da molte di loro negli anni ’60 con conquiste che hanno dato vita alle prime leggi sul sexual harassment, sta mettendo un po’ troppo disinvoltamente in secondo piano un movimento più ampio, che insieme al genere porta avanti tante altre cause di discriminazione, come il colore della pelle. “La giusta indignazione sul tema delle molestie sessuali ha eclissato la discussione sulla razza, al tempo stesso prendendone a prestito il linguaggio” commenta  la giornalista Corinne Purtill su Quartz, che conclude: “Come se l’America potesse occuparsi di una sola ingiustizia alla volta”.

Combattere le discriminazioni richiede la capacità di agire in modo sistemico, con una visione ampia e a lungo termine che le “mode” non hanno mai, per definizione.

3. Uomini che cadono, donne che denunciano, donne che si spalleggiano, uomini che si alleano con loro: storie da copertina che fa piacere leggere (almeno fino al giorno in cui non ce ne saranno più perché sarà cambiata la cultura) e rischiano di farci dimenticare che, almeno per la durata di questa auspicata trasformazione, questo comporterà molte difficoltà aggiuntive per donne e uomini che lavorano insieme, e forse ulteriori casi di discriminazione nell’assumere donne.

Negli Stati Uniti per esempio sono maestri nel fare di ogni problema un tabù, lo chiamano essere “politically correct” ed è un meccanismo che allarga in modo esponenziale l’area delle cose che non si possono nemmeno pronunciare. Ma non parlarne non le fa sparire. Se proviamo a cambiare la cultura solo in superficie, otterremo proprio questo:  una grande area grigia a coprire tutto ciò che non siamo più certi di poter dire e fare, avendo stabilito quali sono i tabù ma senza averli sostituiti con linguaggi nuovi e nuove realtà.

Per questo, ben vengano le copertine, ma ricordiamoci che #nonbasta: ci vuole molto, molto di più.