Lo strano caso delle economiste scomparse

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Che cosa ci fanno quattro donne a un festival dell’economia? È quello che devono aver pensato molte persone (donne per lo più) guardando il panel di un festival sull’economia svoltosi pochi giorni fa a Roma. Sì, perché tra i 37 relatori invitati all’evento, ben 33 erano uomini. Non solo. Le poche donne presenti sono intervenute, quasi tutte, in un panel dedicato proprio ai temi di genere. Una riserva indiana, direbbe qualcuno.

rosselli_annalisaEppure le donne nell’economia non mancano. Negli atenei italiani insegnano infatti 527 docenti donne (contro 1181 uomini), pari al 31% del corpo docenti e ricercatori totali. Tra loro c’è anche la professoressa Annalisa Rosselli che, oltre a insegnare Storia dell’economia politica e Storia e teorie dello sviluppo all’Università di Roma Tor Vergata, è anche la prima presidente donna della Società italiana degli economisti (Sie).

Professoressa Rosselli, come mai finora nessuna donna aveva ricoperto l’incarico di presidente?
Questo incarico viene affidato sulla base dell’indicazione del precedente presidente. Chi ha appena concluso il suo incarico propone cioè il nome del successore che deve rispettare però un requisito: essere un professore ordinario. Si tratta di un ruolo accademico che, fino a poco tempo fa, poche economiste erano riuscite a raggiungere. Ricordo che un’indagine del 1997 aveva rivelato che all’epoca eravamo solo in tre. Ma con la mia generazione i numeri hanno iniziato ad aumentare.

Di che cifre stiamo parlando?
Oggi 1 professore ordinario su 5 è donna. Mi rendo conto che stiamo parlando ancora di numeri bassi e che la parità è lontana ma si tratta di cifre in linea con gli altri Paesi europei.

Perché però i numeri sono ancora così bassi?
Non si può dire che non ci siano donne che studiano economia. Se guardiamo infatti alle dottorande, queste sono circa il 45/50% del totale. Direi quindi che il problema si presenta dopo, sotto forma del famoso soffitto di cristallo.

Possiamo chiamarla discriminazione?
C’è una premessa da fare. Le assunzioni nell’università italiana sono state bloccate per otto anni. Nessuno ha avuto possibilità di fare carriera, tantomeno le donne che, com’è noto, riescono ad ottenere incarichi di peso solo quando ci sono molti posti liberi. E poi c’è da dire che le economiste sono più caute…

Che cosa intende dire?
Mi riferisco al fatto che spesso le donne faticano a fare carriera perché, per esempio, per partecipare ai concorsi servono molte pubblicazioni e le economiste in genere ne hanno meno dei colleghi uomini perché sono più caute. Intendo dire che non pubblicano meno perché lavorano meno, ma perché sono molto accurate e pubblicano solo se sono certe che quel lavoro sia di valore.

Pensa che le quote di genere potrebbero aiutare?
Io personalmente sono favorevole alle quote come misura temporanea perché ritengo che sia un mezzo utile per far conoscere le donne.

Qual è l’atteggiamento dei colleghi uomini?
In quelli della mia generazione c’è senza dubbio una grande difficoltà a considerare le donne come autorevoli. Ma penso che sia abbastanza normale visto che sono cresciuti quasi tutti guardando i film western dove le donne o facevano le torte o venivano rapite dagli indiani. Tra gli economisti più giovani mi auguro invece che il clima sia diverso.

Come Sie avete promosso iniziative e interventi in favore della parità di genere?
In Sie c’è un’attiva commissione di genere creata durante la precedente presidenza e abbiamo istituito un osservatorio sulla professione che monitora temi come quello della presenza femminile o dei percorsi di carriera, attraverso questionari periodici. Inoltre, di recente, abbiamo lanciato iniziative di welfare come il servizio di baby sitting durante i nostri convegni. In generale Sie è poi attiva sul fronte del bilancio di genere perché si tratta di una tema su cui si chiacchiera molto ma si fa poco.

Nel senso che non viene fatto con serietà?
Diciamo che noi facciamo pressione perché sia realizzato mettendo a fuoco non solo i numeri dei maschi e delle femmine, ma anche e soprattutto puntando l’attenzione alla distribuzione dei soldi e del potere. Molti studi Ue hanno dimostrato, infatti, che c’è un’effettiva differenza nella distribuzione delle risorse tra docenti donne e docenti uomini. C’è da dire però che non è sufficiente avere simpatia per questi temi per saper redigere un bilancio di genere, ma servono competenze specifiche e volontà politica.

E la volontà politica c’è?
Non non c’è. Né nelle università, né a livello ministeriale. Non vorrei dare un quadro sconfortante ma devo dire che non vedo nemmeno nessun ateneo che faccia campagne per attirare più donne nelle facoltà scientifiche. Eppure se non partiamo da qui non riusciremo mai a risolvere il problema della segregazione occupazionale delle donne.