“Ho lavorato 10 anni in quella clinica. Dieci anni dalla mia vita passati lì dentro, ogni giorno, dalle 7 di mattina alle 8 di sera. Non mi sono mai risparmiata perché amavo il mio lavoro, il mio team, il mio capo e anche i pazienti. Poi però sono rimasta incinta e ho scoperto che alla nascita di un bimbo il mondo non è mai preparato”. Dopo due mesi dalla nascita di suo figlio, Anita, una giovane chirurga che lavora in provincia di Milano, riceve infatti una convocazione dal suo capo. “Credevo fosse per sapere se ero disponibile per gli ambulatori estivi, visto che mi aveva persino inviato un mazzo di fiori per farmi le congratulazioni per la nascita del bambino. Una volta arrivata lì – ricorda – mi sono però sentita dire che soldi per me non ce ne erano più perché il reparto aveva avuto una riduzione di fondi, e quindi avrei dovuto firmare le dimissioni. Mesi dopo sono venuta a sapere che il mio contratto – quello per cui non c’erano più soldi – era stato affidato a un collega maschio, senza famiglia e l’ad aveva persino deciso di dargli uno stipendio doppio rispetto a quello che ricevevo io”.
La storia di Anita è una delle 41 raccolte dallo istituito dalla Commissione pari opportunità dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri di Milano, istituito per offrire aiuto e consulenza alle donne medico e i cui risultati sono stati presentati durante il convegno “Donna, medico, mamma: si può fare”. “Quando abbiamo creato questo spazio pensavamo che si sarebbero rivolte a noi soprattutto colleghe che avevano dubbi su come chiedere l’indennità di maternità o che volevano conoscere dettagli tecnici come, ad esempio, i tempi di preavviso per comunicare una gravidanza. In realtà, poco dopo l’inizio del servizio, hanno iniziato ad arrivare donne con storie agghiaccianti di discriminazione lavorativa” racconta Maria Teresa Zocchi, consigliera e referente della Commissione pari opportunità dell’Ordine di Milano. In totale, allo sportello, sono arrivate 41 segnalazioni di donne medico che hanno perso il lavoro o che hanno subito discriminazione lavorativa per il fatto di essere diventate madri. “E si tratta solo della punta dell’iceberg”, continua Zocchi che precisa: “basti pensare che tre di loro hanno confessato di conoscere almeno altre 3/4 donne che all’epoca lavoravano nella stessa struttura e che si trovavano nella loro identica condizione ma avevano preferito restare in silenzio per timore di ripercussioni sulla carriera”.
Silenzi e dimissioni formalmente consensuali, ma in realtà obbligate, sono un tema su cui si è concentrato anche l’Ufficio della consigliera di parità della regione Lombardia, Carolina Pellegrini. Una ricerca promossa nel 2011 ha calcolato che nella sola Lombardia, sarebbero oltre 5mila le donne che ogni anno si dimettono dal lavoro nel primo anno di vita del bambino. Un numero che sale vertiginosamente se si estende lo sguardo a tutto il territorio nazionale. “Sappiamo che nel nostro Paese le risoluzioni di contratto (comprese quelle consensuali) dopo il primo anno di vita del bambino sono state oltre 37mila”, rivela Pellegrini. Una situazione che nel caso delle donne medico, sembra essere tutt’altro che circoscritta, come emerge anche dai numeri emersi da una ricerca sul tema condotta dal sindacato dei medici dipendenti Anaao. Lo studio ha infatti messo in luce come la storia di Anita, non sia un caso isolato. Sarebbero, infatti, oltre il 34,7% le dottoresse per cui la carriera ha rappresentato un condizionamento nella scelta di avere figli. E più del 50% quelle che hanno ammesso che il lavoro ha creato loro conflitti familiari e problemi, sfociati a volte anche nel divorzio.
Il sondaggio ha inoltre messo in luce come l’effetto dei figli sul percorso di carriera rappresenti un peso quasi solo per le dottoresse. Il 55,6% ha ammesso di aver dovuto ridimensionare le proprie aspirazioni lavorative dopo la nascita di un figlio. Una situazione che ha invece riguardato solo il 16,4% dei colleghi maschi. La maggior parte di loro (47,4%) ha dichiarato di aver “fatto quello che avrebbero fatto se non avessero avuto figli”, contro solo il 7,9% delle donne intervistate. Al di là di questi pochi casi fortunati, la maggior parte delle professioniste (80%) ha dichiarato invece di essere stata svantaggiata nell’accesso ai ruoli apicali. Una percentuale che sale al 90% per le specialità chirurgiche. Numerose anche le professioniste che hanno rivelato di aver subito mobbing “per il fatto di essere donna” soprattutto nella fascia d’età sotto ai 31 anni, dove il 67% delle intervistate ha risposto “sì, qualche volta”.
Mobbing, discriminazione, difficoltà di accesso alle cariche apicali condizionano così la possibilità delle donne medico di richiedere il congedo di maternità nei tempi e nei modi previsti dalla legge. Se infatti al nord la percentuale di donne che usufruiscono di un periodo di astensione del lavoro inferiore a 5 mesi è del 24,1%, il dato sale al 48,4% se si guarda alle professioniste che lavorano nel sud del Paese. Poche (solo il 31,9%) inoltre le professioniste che usufruiscono del congedo al 30% dello stipendio. Paura di ritorsioni o senso di responsabilità? Di sicuro si tratta di numeri su cui riflettere, tanto che la regione Lombardia ha deciso di inviare a tutti i direttori generali degli ospedali lombardi (pubblici e privati), una lettera per raccomandare il rispetto della normativa sulla tutela della maternità.