
La nascita di un figlio costa alle lavoratrici inglesi una riduzione del 42% rispetto a quanto guadagnavano un anno prima del parto. Cioè oltre mille sterline in meno al mese. O, calcolato nel medio periodo, una perdita totale che supera le 65mila sterline entro il compimento del quinto compleanno del primo figlio o figlia.
Le analisi dei dati pubblicate dall’istituto di statistica nazionale d’oltre Manica (Office for National Statistics, o ONS) a inizio ottobre non lasciano spazio a troppe interpretazioni: le lavoratrici vengono penalizzate dal momento in cui partoriscono e l’impatto negativo sulle loro finanze va ulteriormente ad aumentare ad ogni altro allargamento della famiglia. Stando ai numeri del ONS, i loro guadagni diminuiscono di 26.317 sterline al secondo figlio/figlia. E di 32.456 al terzo.
«E non si tratta di un calo graduale», commentava, interpellata dal Guardian a commento dei dati, Rachel Grocott, amministratrice delegata di Pregnant than screwed, no-profit inglese impegnata nel miglioramento dei diritti delle madri e il sostegno dei genitori che lavorano. Bensì «di una caduta libera che comporta perdite finanziarie di oltre centomila sterline per una madre di tre figli». Continua Grocott: «Le mamme vengono punite perché si prendono cura degli altri, emarginate sul lavoro e (pure) costrette ad accollarsi i costi».
Insomma, il danno e la beffa.
I padri guadagnano meglio
Nel tratteggiare la situazione per la lavoratrici con figli, bisogna ricordare che i loro guadagni si restringono presto perché tendenzialmente lavorano meno, riducendo il numero di ore. Ma anche per il fatto che la loro probabilità di avere un’occupazione retribuita si riduce significativamente nei primi anni di vita del primogenito. Secondo i dati inglesi, a diciotto mesi dalla nascita, arriva ad assottigliarsi fino a 15 punti percentuali. E rimane da qui inferiore, per quanto leggermente meno, al secondo e al terzo figlio. In entrambi i casi con picchi massimi di 10,5 punti percentuali.
Se non bastasse le ultime rilevazioni nel Regno Unito confermano ancora una volta quello che è il parere di molti esperti riguardo al pay gap di genere: una delle cause del suo perdurare è rappresentata proprio dalla genitorialità. La situazione viene poi peggiorata dal persistere degli ordini simbolici dei ruoli nella coppia, una divisione ancora molto squilibrata dei carichi di cura dei bambini e delle necessità di casa. E un sistema che continua a privilegiare le carriere maschili, anche tra chi ha livelli di studio più alti. Basti menzionare come le stesse laureate partono in rincorsa rispetto ai compagni già dal momento in cui escono dalle università.
Nel capire la profondità delle disparità di genere nel mercato del lavoro, aiuta spostare un momento lo sguardo sui padri lavoratori. Perché in fondo, i bambini entrano contemporaneamente (almeno nella maggior parte dei casi) nella vita dei genitori. Se già la motherhood penalty causa l’assottigliamento delle opportunità per le mamme, lo svantaggio viene ulteriormente alimentato dal persistere del fatherhood bonus, fenomeno che mette le carriere dei papà su traiettorie orientate in senso opposto rispetto a quelle delle donne.
Il Pew research center nel 2023 arrivava addirittura a sostenere che, certo la tendenza all’avanzamento dei guadagni e l’aumento della “rispettabilità” dei padri sul lavoro ha un effetto importante (e ulteriore) nell’ampliare il divario retributivo di genere. Ma se porta i papà tra i 25 e i 54 anni a guadagnare più delle mamme, li vede anche venire meglio retribuiti degli occupati uomini senza figli.
Dava un’idea concreta delle differenze, la società di servizi finanziari Bankrate in maggio. Lo scorso anno, negli Stati Uniti, i lavoratori a tempo pieno con figli sotto i 18 anni hanno guadagnato circa il 25% in più rispetto a colleghi che non sono padri. Con stipendi medi che superavano, nel primo caso, i 76mila dollari. E arrivavano a 61mila nel secondo.
Le mamme americane occupate a tempo pieno, sempre secondo Bankrate su dati Census buerau / Current population survey, guadagnano invece il 35% in meno dei padri lavoratori. Scarto questo che, nello specifico, è inoltre in crescita rispetto al 2023 (31%) e al 2022 (32%). Se non intervengono cambiamenti, sui 30 anni questo porterebbe a entrare inferiori per le donne di 600 mila dollari.
L’obbligo di ritornare in ufficio
Al pari delle americane e delle inglesi, moltissime madri nel mondo fanno i conti con la bilancia tra carriera e famiglia. Più frequentemente dei padri si trovano a dover decidere tra il ridurre le ore di lavoro, accettare tagli di stipendio a favore di maggiore flessibilità. O lasciare del tutto la loro posizione perché di fatto sono ancora schiacciate da responsabilità domestiche e di cura talmente sproporzionate da rendere difficile la gestione del tutto. Costrette o meno nelle loro scelte, si trovano oggi a confrontarsi, inoltre, con nuovi ordini di “return to the office” imposte da un sempre più alto numero di imprese.
Facciamo un piccolo passo indietro: sulla scorta della diffusione – all’epoca obbligata – delle modalità di lavoro da remoto conseguenti ai lockdown del 2020, molte aziende hanno nel tempo abbracciato la strada della flessibilità. Al punto che alcune sperimentazioni sono diventate uno standard da estendere ai nuovi assunti. Da qualche mese, però, continuano a far notizia le decisioni di grandi e spesso famose imprese che cancellano del tutto le forme di lavoro in home office o ibride. imponendo il rientro praticamente a tutti i dipendenti.
Una tendenza diventata per niente marginale: secondo il Flex index che monitora le politiche di lavoro flessibile in Usa, l’obbligo di ritorno in ufficio a tempo pieno nel secondo trimestre del 2025, ha interessato il 24% tra le sole aziende dell’elenco Fortune 500. In crescita dell’11% già rispetto alla quota di fine 2024, quando si arrivava al 13%.
Per quanto non si tratti di una situazione che impatta solo le lavoratrici, secondo dati riportati da Washington Post questa estate, questa ragione sarebbe alla base della scelta di 212mila madri di lasciare il lavoro. Certo, il calo è avvenuto in un momento in cui comunque il mercato del lavoro in generale negli Stati Uniti sta rallentando dopo anni di crescita. Ma spicca la quantità di occupate con figli di età inferiore ai cinque anni che hanno deciso di abbandonare la professione*. Secondo i calcoli su dati dell’istituto di statistiche del lavoro statunitense, il loro tasso di partecipazione al mercato occupazionale si è ridotto del 3% tra gennaio e giugno.
Le lavoratrici in Italia
E in Italia? Come stanno le mamme che lavorano nel bel Paese? Per quanto in condizioni lavorative e con un mercato occupazionale non del tutto sovrapponibile a quello statunitense, anche le italiane lavorano e guadagnano meno degli italiani.
Sottolinea lo studio “The role of parental leave policies in mitigating child penalties”, pubblicato in giugno sulla rivista specializzata Economics letters: la nascita di un figlio impatta negativamente i guadagni delle lavoratrici italiane mentre non intacca quasi quelli dei lavoratori. La stessa ricerca nota però che, se si prendono in considerazione i congedi garantiti, la motherhood penalty pare quasi scomparire nel primo anno di vita. E si riduce della metà nell’anno successivo.
Nonostante questo, anche in Italia gli stipendi delle lavoratrici pur tornando in parte ai livelli precedenti alla nascita, non crescono mai al punto da raggiungere quelli dei padri. Inoltre, per i papà né la traiettoria di crescita subisce flessioni né i guadagni smettono di aumentare. Secondo le rilevazioni arrivano anche a +46% a sette anni dalla nascita del primo figlio.

Insomma, a parte piccoli segnali parzialmente positivi, il quadro complessivo resta cupo. Lo mostrano anche i tassi di occupazione femminili prima e dopo la maternità. Secondo l’ultima ricerca Le Equilibriste di Save the Children, in Italia sono occupate quasi il 69% delle donne senza figli. Ma il 62,3% delle mamme. Percentuale che sale leggermente per quelle che hanno un solo figlio sotto i 18 anni (65,6%). Ma cala a circa il 60% quando ne hanno due o più. Al contrario, sono il 77,8% i lavoratori che non sono padri. Ma il 91% quelli con almeno un figlio minorenne.
Oggi ancora, nonostante le tante discussioni, nonostante gli interventi per invertire le tendenze, nonostante la ricerca di soluzioni contro una denatalità persistente, la forbice tra i tassi di occupazioni tra uomini e donne continua ad attestarsi su 20 punti percentuali. Lo stesso livello di dieci anni fa, quando rispettivamente arrivava al 77,5% e al 57,7%. In totale i lavoratori italiani tra i 25 e i 54 anni, a prescindere che abbiano figli o meno, sono l’84,1%. Le lavoratrici il 64,9%.
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* Per completezza, è interessante ricordare che alcune madri indicano di lasciare il lavoro per scelta, in linea con la cultura dal movimento conservatore MAGA che promuove il ritorno al ruolo della “moglie tradizionale” (o tradwife) e celebra il ruolo di madre e “angelo del focolare” invece di una donna interessata alla carriera, all’indipendenza economica e alla realizzazione personale professionale.
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