In tema di violenza di genere l’America latina resta una delle aree peggiori al mondo. Insieme ai Paesi caraibici i dati confermano che qui ancora si registrano i tassi più alti di uccisioni di donne e ragazze. Allo stesso tempo, però, da anni nella regione esistono alcune leggi anche molto innovative in materia. Già dal 1994, poi, l’Organizzazione degli stati americani, in cui si riconoscono 35 Paesi del continente, è dotata di una Convenzione sul tema. Un testo che ha anticipato i tempi sia per il contesto che per l’epoca in cui è stato completato e approvato. E che precede la Convenzione di Istambul del 2011.
Per non edulcorare però una realtà che resta molto drammatica, è utile intanto guardare alla situazione attuale della zona. Un po’ ovunque nel continente persistono tassi complessivi di omicidi altissimi, resta molto importante la presenza (e il peso) della criminalità organizzata a diversi livelli. E restano profonde e radicate disuguaglianze tra le popolazioni.
In un contesto simile, non è troppo sorprendente quindi che i femminicidi rimangano tantissimi. Secondo la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’America latina e i Caraibi (ECLAC dall’acronimo del nome inglese)*, lo scorso anno state almeno 3.897 le vittime nei 27 paesi e territori del subcontinente. Cioè almeno 11 morti violente al giorno di donne uccise a causa del loro genere. Nella sola Argentina sono stati 322 i casi di questo tipo. Messo in altre parole, si tratta di un evento quotidiano lungo l’arco di 12 mesi. Un record che supera il precedente picco di 295 donne e ragazze uccise risalente al 2020.
Tra gli altri il Paese è emblematico in negativo. È infatti recentemente finito sotto osservazione sia per la decisione del suo primo ministro di eliminare il ministero delle Donne, del Genere e delle Diversità. Che essendo stato l’unico membro ONU a votare contro una bozza di risoluzione per la promozione dell’intensificazione degli sforzi per la prevenzione ed eliminazione di tutte le forme di violenza digitale contro donne e ragazze.
In un contesto generale, differenze a parte, una caratteristica resta comune, presente in tutta la regione, e riguarda il rapporto tra vittime e carnefici. In otto su dieci dei Paesi per cui esistono informazioni rilevanti, circa il 60% di questi crimini violenti contro le donne è stato commesso da un partner o ex-partner. Con la punta massima registrata a Porto Rico, dove nel 100% dei femminicidi denunciati esisteva una relazione tra la vittima e il suo carnefice. A seguire, Paraguay, Cuba, Cile e Uruguay le cui percentuali si attestano tra il 73,9% e l’88,9%.
America latina come modello?
A guardare i numeri si capisce facilmente come il lavoro da fare resti enorme. Eppure, per quanto modesto il calo medio registrato tra il 2017 e il 2022 in tutta la regione dà speranza a molti che del tema si interessano, perché conferma, quantomeno, che si stanno facendo passi della giusta direzione.
«La situazione che sta vivendo l’America latina è di grande interesse per tante ragioni», conferma la Mia Caielli, professoressa di diritto pubblico comparato all’Università di Torino. Intanto già «l’OAS (l’Organizzazione degli stati americani) con la Convenzione Belem do Parà del 1994, si è dotata di uno strumento giuridico in tema di violenza di genere importante e davvero innovativo. (E lo ha fatto) molto prima del Consiglio d’Europa».
Non dimentichiamo inoltre che «la Corte interamericana dei diritti umani da anni interviene in materia, interpretando la Convenzione in modo estensivo. Condannando gli Stati, svolge un ruolo di impulso ai legislatori nazionali molto rilevante. Diverse Costituzioni, poi, hanno di recente introdotto disposizioni ad hoc dedicate al contrasto alla violenza di genere».
In un certo senso, dove mancano i Governi, intervengono i giudici. La storia anche recente degli stati latinoamericani «è fatta di instabilità governative continue – ricorda Caielli -, presidenti che cadono e nuove elezioni, regimi semi-dittatoriali in alcuni casi, una situazione politica difficile che si instaura su contesti alle volte drammatici. I giudici stanno un po’ avendo un ruolo di supplenza. Per due motivi: primo per i meccanismi di selezioni dei giudici. Secondo, per i loro ruoli (stabiliti) proprio da costituzione hanno certi poteri – nella difesa almeno dei diritti umani – anche grazie ad efficaci meccanismi di tutela giudiziaria dei diritti umani che, per esempio, in Italia non ci sono».
In Brasile punizioni aumentate
Un modello dell’incidenza (positiva) della giustizia sui governi, è la cosiddetta legge brasiliana “Maria da Penha”. Questa normativa, dal nome dalla vittima al centro del procedimento, è stata in grado di cambiare molte cose nel Paese. La sua introduzione infatti, è avvenuta dopo che questa vicenda personale di abusi subiti è arrivata alla Commissione interamericana dei diritti umani nel 1998. Con questo caso per la prima volta l’attenzione di quest’organo dell’OSA è stata indirizzata e si è occupata di un caso di violenza contro le donne.
Spiega la professoressa Caielli: «la Commissione, nel 2001, ha condannato il Brasile per la violazione della Convenzione interamericana dei diritti umani per non aver agito in maniera adeguata per prevenire e contrastare la violenza contro le donne. Oltre alle sanzioni, ha quindi imposto allo stato di aggiornare il quadro giuridico in materia di violenza domestica contro le donne. Da qui il Parlamento, incalzato dall’esecutivo, ha adottato la legge» entrata poi in vigore nel 2006.
Da allora, con aggiustamenti e modifiche, e unificando questo testo ad altri provvedimenti, siamo arrivati in ottobre alla firma da parte del presidente Lula de Silva della nuova normativa nazionale. Il testo alza la pena per femminicidio da un periodo tra i 12 e i 30, a un massimo di 40 anni di carcere – la sanzione più lunga prevista in Brasile. Proibisce agli autori di crimini contro le donne di ricoprire cariche pubbliche. E il femminicidio viene trasformato in reato separato dall’omicidio. Aumentando la visibilità di questi crimini, in qualche modo questa innovazione punta anche a ridurre il numero delle mancate denunce.
Il movimento parte dal basso
La vicenda del Brasile è un po’ l’ultima di un certo fenomeno di cambiamento nella regione. Da almeno 25 anni, infatti si assiste all’introduzione o aggiornamento di leggi che spesso erano innovative già alla loro concezione. E nella maggior parte dei casi questo fermento è animato dal basso. La spinta per innovare infatti avviene primariamente grazie alla mobilitazione sociale, al femminismo militante. Spiega Mia Caielli, molto è dovuto proprio «all’alleanza tra movimenti e associazioni: anche se possono divergere su alcuni temi, come è ovvio che sia, hanno finalità comuni, si coalizzano e vanno avanti insieme. Il ruolo di ONG e associazioni femministe e di giovani è cruciale. Un modello per i movimenti europei – penso a Ni una menos, nato in Argentina nel 2015, estesosi in altri Paesi latinoamericani, ha poi raggiunto l’Europa».
A questo si aggiunge la posizione della giustizia, “l’alleanza di giudici”. «Le corti supreme, le corti costituzionali, e ovviamente la Corte interamericana dei diritti umani, si stanno da un po’ “sostituendo” al legislatore. I parlamenti sono estremamente divisi, inerti. È interessante vedere come – cosa che succede spesso in America latina non solo in materia di violenza contro le donne – una legge sia il portato di una decisione della Corte Interamericana dei diritti umani a cui lo Stato deve adeguarsi».
Chiaramente il percorso latino-americano per il contrasto alla violenza contro le donne se trova forza nella società, i movimenti femministi e i giudici, è ben lontano dall’aver risolto tutte o anche molte delle questioni aperte. E il suo avanzamento rimane, oggi in particolare, fortemente minacciato.
Un esempio in questo senso è rappresentato dalla direzione che sta prendendo l’esecutivo argentino guidato da fine 2023 da Javier Milei. Sostenendo come “la violenza non ha genere”, il governo ha incluso una serie di riforme a inizio 2024. Tra queste la proposta di restringere il campo di applicazione della “Ley Micaela” (dal nome di una vittima di femminicidio avvenuto nel 2017) che richiede, tra le altre cose, di formare a tutti i livelli i suoi funzionari sulle questioni di genere e violenza conto le donne. «Nel 2023, – ricorda Caielli – secondo i dati governativi, i femminicidi sono stati più di 300» circa il triplo dell’Italia** su una popolazione che è del 30% inferiore. Con il cambio di passo impostato dal presidente, «d’ora in poi la risposta dello Stato non sarà tanto efficace data (anche) l’abolizione del Ministério da Mulher e il taglio significativo ai finanziamenti delle azioni contro la violenza».
Chiaramente restano difficoltà e rischi, con uno sguardo allargato però, conclude la professoressa dell’Università di Torino, «sino ad oggi le corti hanno risposto bene. Sono riuscite a dare delle risposte a interpretare in maniera estensiva la costituzione. La società civile, le corti, il sistema interamericano di tutela dei diritti umani stanno continuano a svolgere un ruolo cruciale e il loro attivismo è degno di attenzione».
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* A metà novembre la Economic Commission for Latine America and the Caribberan (ECLAC) ha pubblicato l’ultimo bollettino della serie “Femicidal violence in figures Latin America and the Caribbean” con dati e indicazioni per il necessario intervento rapido in materia.
** Nello stesso anno sono stati 120 i femminicidi in Italia. I dati sono tratti dal Report “8 marzo. Giornata internazionale dei diritti della donna. Donne vittime di violenza”, realizzato dal Servizio Analisi Criminale della Direzione Centrale Polizia Criminale, Ufficio a composizione interforze del Dipartimento della pubblica sicurezza.
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