Linguaggio: voce alle donne, le parole non dette non esistono

In un momento storico in cui un parlamentare ha pensato di poter imporre per legge l’utilizzo del maschile anche quando a ricoprire i ruoli istituzionali siano le donne, diventa ancora una volta fondamentale tornare sull’importanza delle parole, del linguaggio. Le parole possono essere veicolo di una nuova cultura, più paritaria, come possono invece aggravare le discriminazioni, veicolare ancora stereotipi, preservare antichi equilibri.

Non è un caso, infatti, che per definire ruoli percepiti nella nostra cultura come più importanti e in vista, il maschile sovra-esteso possa essere addirittura imposto a suon di sanzioni.

Eppure non mancano inviti importanti, a partire dall’Accademia della Crusca, all’uso delle declinazioni di genere previste nella lingua italiana, parole come ‘sindaca’, ‘ministra’, ‘notaia’, ‘magistrata’ . Parole non fini a se stesse, ma portatrici un cambiamento intrinseco della cultura grazie alla funzione di creazione di role modeling per le nuove generazioni, oltre che per il riconoscimento delle donne in determinati ruoli, un tempo appannaggio solo degli uomini.

«Il genere femminile – dice Giulia Morello, autrice e regista – esiste da sempre nella nostra bellissima lingua, eppure appare una recente ‘conquista linguistica’ poter declinare le professioni al femminile. Il recente disegno di legge presentato dal senatore Potenti (fortunatamente ritirato e da cui il suo stesso partito ha preso le distanze) mette in discussione la grammatica italiana. È davvero inquietante il modo in cui si cerca di togliere voce (e forza) alle donne negli atti pubblici. In fondo le parole che non si dicono, non esistono».

Parole e linguaggio che, da quelli usati nelle fiabe a quelli in musica, sono state al centro del recente festival ‘Fuori posto’, sotto la direzione artistica di Emilia Martinelli.

Le narrazioni delle donne

«’Fuori posto’ – racconta Martinelli – è un festival dove la maggior parte delle figure artistiche e organizzative sono donne, che da anni portano all’attenzione del pubblico spettacoli, performance , installazioni capaci di metter fuori posto artisti e pubblico, per cucire poi un nuovo dialogo, a stretto contatto».

Il festival, prosegue, «in ogni edizione, ha sempre dedicato spazio alle narrazioni delle donne. Quest’anno abbiamo deciso di dedicare a queste voci l’ultima giornata del festival, con le letture femministe del gruppo Cattive ragazze, lo spettacolo itinerante Fiabə, dove le protagoniste delle favole si raccontano, tirano fuori la voce, perché non vogliono più essere raccontate, perché vogliono togliersi di dosso una serie di stereotipi, appiccicati sulla pelle da secoli».

La riscrittura delle fiabe

Le fiabe popolari sono «una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi ad un uomo e a una donna», come scrive Italo Calvino.

Spesso i personaggi femminili di queste fiabe sono oggetti di malie, incantamenti, maledizioni, aspettano di essere salvate, spesso non hanno voce e non hanno una volontà.  Nel percorso di riscrittura drammaturgica avvenuto al Festival, emerge, invece, il punto di vista di queste ‘donne di fantasia’: la loro voce, il loro desiderio, il loro riscatto, le azioni possibili e quelle mancate, inventando altri inizi, altri finali, ma soprattutto  immaginando la loro trasformazione da oggetti di narrazione a soggetti narranti.

La musica come veicolo di cambiamento

Dalle parole delle fiabe a quelle della musica, anch’essa protagonista di ‘Fuori Posto’, con il concerto di Assia Fiorillo. La musica ad esempio, con alcuni famosi testi della trap, invece di far fare un passo avanti alle nuove generazioni , rischia di veicolare vecchi stereotipi e offese sessiste alle donne.

«Io – racconta la cantante Assia Fiorillo che ha partecipato all’evento finale nella romana Villa Carpegna – credo che l’arte e la musica possano invece essere degli amplificatori di messaggi importanti. Penso che gli artisti debbano prendersi l’onere e anche l’onore di portare all’attenzione dei temi che riguardano tutti e non necessariamente indicando la strada, non credo che possiamo definirci dei maestri di vita, ma io mi immagino l’artista come una persona che osserva, si fa domande, è aperto. E che queste domande e questa apertura possano mostrarle a chi fruisce di quella musica».

Fiorillo, che con la sua  arte contamina jazz, pop, elettronica e tradizione con linguaggi internazionali, nel suo percorso ha cominciato da temi personali, per poi alzare lo sguardo verso tematiche che le stavano particolarmente a cuore.

«Ogni giorno leggiamo notizie terribili dal mondo, tragedie enormi o anche piccole storie, e sappiamo che per la maggioranza di queste non abbiamo alcun potere se siamo da soli. Per questo motivo ho cominciato a scrivere anche di questi temi, per provare a portare le mie domande anche a chi mi ascolta, creando un terreno comune e usando la musica come un ‘aggregatore’».

Per Fiorillo, ad esempio, la trap è «un genere con delle peculiarità, alcune che apprezzo ed altre che non mi piacciono per nulla. Mi piace molto la ricerca della musicalità nelle parole, il modo di giocare col timing. Non capisco né condivido i temi, che nel migliore dei casi sono un manifesto del capitalismo, nel peggiore del maschilismo e del sessismo».

Una montagna da scalare

Oggi, prosegue, essere una cantante donna, «vuol dire avere una montagna da scalare. I temi che richiedono un’attenzione maggiore rispetto a parole che restano in superficie, sono più difficili da portare avanti. Ormai tutti sappiamo che esistono soglie di attenzione bassissime in media e quindi scegliere di veicolare determinati messaggi, che richiedono un’attenzione maggiore, vuol dire mettere in conto di decimare il proprio pubblico.  Per quanto riguarda la questione, enorme, di genere, basta guardare le selezioni dei concorsi per artisti indipendenti, le line up dei festival o qualsiasi altra rassegna: così come per politica, per l’economia e per ogni altro campo, le donne hanno pochissimo posto a disposizione, talvolta soltanto per facciata e qualche volta, laddove nemmeno lo scrupolo della facciata esiste, sono completamente assenti. C’è ancora moltissimo da fare, ma intanto io resisto».

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  • ricardo |

    La censura è censura, che imponga la diversità o l’uguaglianza. La lingua va avanti che ci piaccia o no, e se vogliamo correggere i generi allora diciamo gli uovi. Il latino aveva il neutro, l’italiano no, e il maschile è generico. Diciamo il ministro Valkditara e la ministra Locatelli, ma non il Consiglio dei ministri e delle ministre. Però in modo coerente, quindi Dipingo da solo per non pagare un imbianchino (nessuno direbbe un’imbianchina) ma pure PUlisco da solo per non pagare un domestico (e non una domestica).

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