Che volto ha la guerra? In questa immagine quello di Olena Kurilo, un’insegnante ucraina rimasta ferita nel bombardamento della propria città, Chuguev, nella regione di Kharkiv. Sono località di cui non avevamo probabilmente mai sentito il nome, prima del 24 febbraio, quando Vladimir Putin ha dato il via all’invasione russa.
Questa e altre foto del volto ferito e sofferente di Olena sono diventate il simbolo di una guerra impensata, divampata nel cuore dell’Europa e di cui ancora oggi, a quasi un anno dal suo scoppio, stentiamo a capacitarci: una guerra di conquista, in cui un paese, la Russia, rivendica come propri dei territori oggi parte di un altro, l’Ucraina. E la invade, per prenderseli con la forza e annetterli, come fossimo ancora al tempo della Guerra dei 30 anni o delle invasioni mongole o dell’impero romano. La freccia del tempo sembra avere invertito la propria corsa.
Ho scelto questa foto non tanto per le garze e le provvisorie medicazioni sulle ecchimosi causate dai detriti e le schegge della bomba che ha distrutto la casa di Olena, ma per il suo sguardo perso, incredulo, che scruta non tanto lo scenario di macerie e distruzione della città, quanto dentro di sé: come ci si può rendere conto di quel che è successo? Avere perduto casa propria con tutto quello che è più intimamente nostro – i ricordi, le memorie della nostra vita – e dovere paradossalmente ringraziare di essere sopravvissuti: sento un brivido di gelo nella schiena solo al pensiero. E non posso non pensare come quella luce dietro la testa di Olena, che filtra tra i capelli biondi e scompigliati, assomiglia molto, troppo a un’aureola: stiamo guardando in volto una martire dei nostri giorni.
Il 24 giugno la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato la storica sentenza Roe contro Wade, con la quale la stessa corte garantì nel 1973 alla giovane Norma McCorvey (protetta dallo pseudonimo di Jane Roe) il diritto ad abortire, che venne così riconosciuto a livello nazionale per tutte le donne. Questo ribaltamento cancella ora l’aborto in quanto diritto costituzionale e ripristina la capacità dei singoli stati di approvare leggi che lo proibiscano, riportando così gli Stati Uniti drammaticamente nel passato in tema di riconoscimento dei diritti delle donne.
Questa foto, scattata a Washington davanti all’edificio della Corte Suprema il giorno stesso del pronunciamento, racconta una delle numerosissime e imponenti manifestazioni di protesta che hanno attraversato il Paese, rivendicando a gran voce il diritto all’autodeterminazione delle donne, spesso riassunto nello slogan visibile sul cartello esposto come una bandiera: “my body, my choice”.
Tornano prepotenti alla mente le immagini dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021, perché ancora una volta le foto ci mostrano un monotono, preoccupante spettacolo che si ripete, quello di un’America spaccata in due: a fronte dei festeggiamenti dei movimenti pro-aborto, dei conservatori e dell’esultanza dell’ex presidente Donald Trump, il presidente Biden, politici, media, intellettuali e normali cittadini, nel Paese e in tutto il mondo, hanno duramente criticato la sentenza, che, con le parole dei 3 giudici democratici contrari, determinerà certamente “la riduzione dei diritti delle donne e del loro status di cittadine libere ed eguali.”
È il 21 settembre, Nasibe Samsaei, iraniana che vive a Istanbul, si taglia i capelli in un gesto diventato ormai virale. Si è appena diffusa la notizia della morte della ventiduenne Mahsa Amini, la giovane vestita di bianco che compare sul foglio davanti al petto di Nasibe.
Arrestata il 13 settembre dalla polizia morale di Tehran perché non indossava l’hijab, Mahsa è stata dichiarata morta il giorno 16, dopo 3 giorni in coma in ospedale. Quell’omicidio (negato dalle autorità iraniane) è stato la miccia delle imponenti proteste che da quel momento sono deflagrate fino a raggiungere tutto il paese: sono i giovani, gli studenti universitari e, in modo particolare, le donne a rivoltarsi, insofferenti della stretta di soffocante rigorismo morale imposto da Ebrahim Raisi, il presidente ultra-conservatore della Repubblica islamica dell’Iran insediato nel 2021.
Le donne in Iran sono cittadine di serie B, a libertà limitata: non possono studiare o lavorare, divorziare o lasciare il Paese senza il permesso del marito o padre o fratello; se postano foto senza velo sui social sono sanzionate con delle ulteriori limitazioni dei loro diritti; non possono addirittura andare in bicicletta o allo stadio (tranne se gioca la nazionale). Il potente atto simbolico del taglio dei capelli, emblema di femminilità, sensualità, ma anche di forza, è un urlo disperato: nel nostro Paese possiamo essere tollerate solo al prezzo di dolorose e non più accettabili rinunce, solo tagliando via una parte viva di noi.
Le proteste continuano tuttora, come le violenze e gli omicidi del regime: è importante tenere desta la nostra attenzione e fare tutto ciò che è in nostro potere per sostenere gli iraniani in questa lotta.
Il 2022 è stato l’anno in cui, nelle terre del Regno Unito e in tutti i reami del Commonwealth, si è tornati a cantare, dopo 70 anni e 214 giorni, God save the King: la più longeva sovrana nella millenaria storia della corona britannica, sua Maestà Elizabeth II della casa di Windsor, è infatti deceduta l’8 settembre a 96 anni e le è succeduto sul trono re Carlo III.
La straripante folla di questa foto manifesta l’affetto sincero e appassionato che i cittadini britannici nutrono per la loro regina, oltre che per l’istituzione monarchica che gloriosamente prosegue la propria vita. Terminata la cerimonia ufficiale del funerale nell’abbazia reale di Westminster, il feretro viene riportato al castello di Windsor per il servizio funebre privato e familiare nella Cappella di S. Giorgio, cui seguirà il seppellimento nella Cappella Memorial di re Giorgio VI, fatta costruire da Elisabetta stessa. Le spoglie della regina riposeranno qui accanto a quelle dei genitori (Giorgio VI ed Elisabetta la regina madre), del principe Filippo suo marito e della principessa Margaret, la figlia più giovane.
Per molti di noi, anzi per tutto il mondo, Elisabetta era una figura familiare: salita al trono nel 1952, possiamo dire che ci sia sempre stata. Vera incarnazione della Monarchia, il suo portamento e la sua colorata, personalissima eleganza di puro stampo British, la stupefacente tenacia con cui ha fino all’ultimo presenziato a tutti gli innumerevoli eventi pubblici che lo richiedevano, la tempra che ha dimostrato nei momenti più difficili (basti pensare al ciclone mediatico seguito alla morte di Lady Diana) sono testimonianza di incredibile forza fisica e morale e di profondo amore per la patria e la corona, cui ha dedicato tutta sé stessa. Valori e fedeltà di altri tempi. Auguriamoci che non cadano nell’oblio; non solo nel Regno Unito.
È il calcio stesso a morire sul finire dell’anno dei controversi mondiali invernali in Qatar: il 29 dicembre se ne è andato Edson Arantes do Nascimento, per tutti Pelé. Considerato il più grande calciatore di tutti i tempi, le 4 lettere che formano il suo nome (4 come nella parola goal) hanno significato e sempre significheranno football e tutti i fortissimi sentimenti che si intrecciano a questo sport, il più diffuso e amato del pianeta.
Non bastano le cifre ai limiti dell’incredibile a raccontare chi e cosa sia stato Pelé: unico giocatore ad avere vinto 3 campionati del mondo (nel 1958, ‘62 e ‘70), autore di più di 1.000 gol (secondo le statistiche ufficiali FIFA 1281 in 1363 partite), Pelé è una leggenda, che ha iniziato a scrivere mentre era ancora in attività.
Nel 1958 il mondo fu sbalordito dall’apparizione di questo diciassettenne che trascinò il Brasile alla vittoria con 6 gol, segnando una doppietta nella finale contro i padroni di casa della Svezia (5-2 per la seleçao). Fu il grandioso inizio di una cavalcata trionfale che lo portò a diventare o’ Rey ed era – non dimentichiamolo: siamo negli anni ’60 – un sovrano dalla pelle nera. Al termine della partita di addio al calcio, disputata nel 1977 tra le uniche 2 squadre di club con cui abbia militato, il Santos e i New York Cosmos, abbracciò Muhammad Alì accorso a omaggiarlo e gli regalò il pallone, in una sorta di passaggio del testimone tra le 2 più grandi leggende di colore dello sport, che ha dato il via a una lunga iconografia di abbracci di Pelé con le personalità più celebri dei più svariati ambiti.
Di lui Andy Warhol disse che era stato l’unico a smentire la sua celebre affermazione: avrà non 15 secondi, ma 15 secoli di celebrità. Pelé eterno, come dice il grande manifesto sulla facciata della sede della Federazione Brasiliana di Football nella foto con cui chiudiamo.
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