“Ciò che noi sappiamo è che, in modo non stereotipato, nessuno sa nulla. Non puoi sapere nulla. Le cose che sai… non le sai. Intenzioni? Motivi? Conseguenze? Significati? Tutto ciò che non sappiamo è stupefacente. Ancor più stupefacente è quello che crediamo di sapere”, scrive Philip Roth ne La macchia umana.
Ciò che sappiamo di Noa Pothoven è che aveva 17 anni e alle spalle una lunga sequela di eventi traumatici, come racconta nell’autobiografia “Vincere o imparare”: prima le molestie alla festa di una compagna di scuola, a soli 11 anni, tre anni più tardi la violenza sessuale da parte di due uomini. Apprendiamo che soffriva di diversi disturbi, come è frequente quando vi siano traumi cumulativi: disturbo post-traumatico da stress, disturbi alimentari e una grave forma di depressione.
Oggi sappiamo anche che non si è trattato di eutanasia e la velocità con cui questa parola è stata associata a Noa testimonia come, di questi tempi, sempre più ci si senta autorizzati a parlare di tutto, anche di questioni delicate, pur non sapendone nulla, come ci ricorda la citazione iniziale di Roth. La ragazza ne aveva più volte fatto richiesta alle istituzioni preposte – visto che la legge olandese prevede che chiunque soffra per motivi fisici o psichici, a partire dai 12 anni, possa ricorrere all’eutanasia – senza però ottenere l’autorizzazione da parte dei medici e della specifica commissione. Considerata la giovane età, i medici suggerivano piuttosto che portasse avanti il suo trattamento psicologico.
A livello clinico, poi, sappiamo molto dell’impatto che i traumi possono avere sullo sviluppo psicologico. Grazie alla ricerca, ad esempio, abbiamo capito che le vittime di abusi sessuali in età infantile e adolescenziale hanno non soltanto un rischio più elevato di sviluppare disturbi mentali, tra i quali depressione e disturbi del comportamento alimentare, ma anche un più alto rischio suicidario. Gli eventi traumatici, ci spiega Porges, sono in grado di produrre una drammatica disregolazione neurovegetativa, conseguenza diretta di un’attivazione cronica del nostro sistema di difesa in situazioni di stress.
Chi sviluppa un disturbo post traumatico da stress tende a rivivere continuamente il trauma cui è stato esposto, intrappolato in un passato che si fa eterno presente: ne rivede le immagini, ha ricordi vividi da un punto di vista olfattivo, sente distintamente le voci e i suoni; le sensazioni che ricompaiono nel corpo sono le stesse di allora, ma sono qui ed ora. Lo scrive anche Noa nella sua autobiografia: “Pensano che sono molto giovane, che devo finire il trattamento psicologico […] Sono devastata perché non posso aspettare così a lungo, rivivo la paura e il dolore ogni giorno”. E ancora: “Non ero viva da troppo tempo, sopravvivevo e ora non faccio più neanche quello…”.
Se gli studi sul trattamento del PTSD e della depressione conseguenti a traumi indicano elevati livelli di efficacia per le psicoterapie cognitivo comportamentali e l’EMDR, ci sono però casi che faticano a guarire, proprio come quello di Noa. Si è visto, ad esempio, che il maltrattamento infantile è associato non solo ad un elevato rischio di sviluppare disturbi depressivi ricorrenti e persistenti, ma anche ad una scarsa aderenza alla terapia e ad una ridotta remissione dei sintomi dopo il trattamento. Quanto al rischio suicidario, interventi terapeutici che combinano farmaci e psicoterapia hanno mostrato significative riduzioni in gruppi di adolescenti depressi ma, sebbene i risultati siano promettenti, sono necessari ulteriori studi per capire cosa sia realmente efficace e in quali casi.
Insomma, da qui in avanti ci sono i leoni, iniziamo ad addentrarci in ciò che non sappiamo: in che modo il dolore arrivi a svuotare di significato l’esistenza di una diciassettenne e a spegnere in lei ogni motivazione alla vita, al punto da annullare ogni possibilità di riscatto e rendere vano ogni tentativo.
“ – Ma davvero vuole morire?/– Nessuno si suicida perché vuole morire./– E allora perché lo fa?– Perché vuole fermare il dolore”, suggerisce la scrittrice americana Tiffanie DeBartolo. Gli fa eco David Foster Wallace che, come è noto, ha guardato da vicino il dolore della depressione e si è fermato a lungo sul bordo della vita. “La persona in cui l’invisibile agonia della Cosa [ndr, la depressione] raggiunge un livello insopportabile si ucciderà proprio come una persona intrappolata si butterà da un palazzo in fiamme. Non vi sbagliate sulle persone che si buttano dalle finestre in fiamme. Il loro terrore di cadere da una grande altezza è lo stesso che proveremmo voi […]. Qui la variabile è l’altro terrore, le fiamme del fuoco: quando le fiamme sono vicine, morire per una caduta diventa il meno terribile dei due terrori. Non è il desiderio di buttarsi; è il terrore delle fiamme”. La decisione può essere o meno il frutto di una libera scelta – domanda sempre aperta nel caso degli adolescenti – può rappresentare l’esito di un gesto impulsivo o di un’azione lenta, programmata, perseguita con lucidità, come per Noa.
Avvicinarsi alla storia di Noa vuol dire allora avvicinare la zona d’ombra, nella quale ogni bussola razionale, in primis quella del giusto e dello sbagliato, funziona poco. A salvarci la vita a volte è la paura di soffrire o far soffrire qualcuno, altre volte i valori in cui crediamo o una storia, che ci raccontano o che riusciamo a raccontarci, rimettendo insieme frammenti scheggiati e deformati. Alcune volte l’occasione è offerta da una terapia nella quale diamo voce alla nostra paura, restituiamo il trauma al passato, accogliamo e rileggiamo la nostra storia, “impariamo a tollerare di sentire ciò che sentiamo e sapere ciò che sappiamo”, direbbe Van der Kolk (“Vincere o imparare” è il titolo dell’autobiografia di Noa. E se vincere fosse imparare?). Altre volte a salvarci è un incontro. Nel bellissimo libro di McEwan La ballata di Adam Henry, che tante riflessioni solleva sull’umano e sulla giustizia, e da cui è stato tratto un film altrettanto coinvolgente, pur nella complessità del finale, si accenna a questa possibilità. L’inscalfibile giudice Fiona Maye entrando nella stanza di ospedale di Adam – diciassettenne gravemente malato che rifiuta le trasfusioni ed è destinato a morire tra grandi sofferenze – gli porta la bellezza, la musica, la poesia. Ma oltre a questo gli regala, e inaspettatamente regala anche a se stessa, la potenza di un incontro che sprigiona emozioni.
Faccio mie, ancora una volta, le parole di Roth: “In un modo assolutamente inverosimile, ciò che non avrebbe dovuto accadere era accaduto e ciò che avrebbe dovuto accadere non era accaduto”. Non smetto di immaginare finali diversi per la storia di Noa, nei quali la vita salva se stessa facendo darwinianamente il suo dovere. Mi chiedo cos’altro si sarebbe potuto fare per lei e la sua famiglia.
Noa lascia dietro di sé un senso di sconfitta, ma anche tante domande impellenti. Ce le lascia in eredità, insieme alla responsabilità di capire di più, di sapere di più, di continuare ad interrogarci sulla volontà di vivere e su come aiutare gli adolescenti a preservarla e a risvegliarla.