Nella Sala 18 al terzo piano del Museo di Roma, recentemente riallestito, sono esposti gli affreschi di Polidoro da Caravaggio e Maturino da Firenze, preservati dalla demolizione del Casino Del Bufalo operata nel 1885 per il prolungamento di via del Tritone. Si tratta di quattro grandi scene dipinte a monocromo, più due figure allegoriche isolate che nella facciata distrutta erano posizionate in alto. Poiché, contrariamente a molta parte di coloro che fanno il mio mestiere nei musei, sono piuttosto certa che il nome Polidoro da Caravaggio non dica gran che alla maggior parte del pubblico – e ritenendo d’altro canto che un museo pubblico abbia il dovere di parlare a tutti i visitatori, a prescindere dal grado di conoscenza di ciascuno – ho ritenuto necessario trasmettere la nozione degli affreschi, della loro collocazione perduta e delle storie che narrano, a partire dal punto di vista del singolo visitatore, cioè da un’emozione o uno stato d’animo a lui già noti in quanto vissuti in precedenza e con i quali (semplicemente) “aprire un dialogo”.
Ho scelto quindi l’esperienza della perdita, centrale nel tema espositivo del terzo piano del Museo (dedicato alla Roma delle demolizioni tra fine ‘800 e Ventennio fascista) e senza alcun dubbio presente nella dimensione esistenziale di ognuno di noi. La perdita di un amore, di un bene prezioso, di una relazione che ci ha nutriti, di un pezzo della nostra storia pregressa che non vivremo mai più se non nel ricordo vivido delle emozioni che provammo allora e che a volte rivivono attraverso un suono, un profumo, una parola.
E poiché le scene dipinte dagli allievi di Raffaello illustrano la storia d’amore tra Perseo e Andromeda, narrata da Ovidio nelle Metamorfosi, ho immaginato di “guardarle” con gli occhi di una giovane donna, Violetta, che si trovasse a camminare nel giardino Del Bufalo in una sera di maggio del 1885, poco prima quindi della sua distruzione, e a rivivere la malinconia di un amore perduto che proprio in quel luogo aveva vissuto momenti felici.
La storia di Violetta si intreccia così con la narrazione del mito, sullo sfondo di una Roma che sta perdendo il proprio volto, sotto i colpi inesorabili del piccone demolitore. Ciò che maggiormente trapela dalle parole di Violetta è la consapevolezza di una dimensione esistenziale perduta e la malinconia per qualcosa che non resterà che un ricordo: il giardino, scenario del suo amore, scomparirà per sempre proprio come quella Roma che le sale al terzo piano di Palazzo Braschi raccontano al visitatore. Una città che non c’è più, ma che ancora vive nell’evidenza dei reperti esposti e nella restituzione – attraverso plastici, fotografie dell’epoca e filmati dell’Istituto Luce – degli originari contesti urbanistici.