Fatto dalle donne. Fatto con il cuore. Made in Carcere festeggia dieci anni, ma cammina con l’entusiasmo dei primi giorni. A trainare questo progetto nato a Lecce, che sta lentamente espandendo i suoi confini, è Luciana delle Donne, ex manager di una multinazionale, che ha messo la sua esperienza più che ventennale nel campo dell’economia e della finanza al servizio delle donne detenute.
Nel laboratorio del penitenziario del capoluogo salentino quindici detenute (ma il numero oscilla a seconda del turn over), tra italiane e straniere, cuciono scampoli di stoffa e rammendano pezzi di esistenza, provando a costruirsi un’identità nuova che le veda protagoniste al positivo. Sono regolarmente assunte per un impiego part-time di sei ore e hanno una busta paga di settecentocinquanta euro, con cui riescono ad essere economicamente autonome e ad aiutare le famiglie al di là delle sbarre. Come dire, le donne sostengono sempre la famiglia, anche in condizioni oggettivamente difficili. Per tutte loro questo progetto è di vitale importanza: rappresenta l’obiettivo con cui si alzano la mattina o grazie al quale si sentono finalmente impegnate in qualcosa di costruttivo, sperimentando una collaborazione creativa. Sono loro stesse a candidarsi.
La materia prima è a costo zero perché le aziende che credono e sostengono Made in Carcere regalano gli scarti di stoffa che altrimenti sarebbero andati al macero. Così nascono braccialetti, borse, shopper bag, accessori, custodie tech colorati e con una spiccata personalità. Alcune hanno nomi originali come “Doppio Panico” o “Doppia Faccia”, con qualche evidente riferimento alla storia di chi li produce. Il progetto, un’idea semplice e allo stesso tempo efficace sta portando i suoi frutti: conta anche una decina di collaboratori esterni e sta cercando “ambassadors”, procacciatori di affari per allargare il giro di vendite con nuovi contratti.
A questo mondo, un modo per provare a coniugare business e anima si può trovare. Basta volerlo e rimboccarsi le maniche. Made in Carcere rappresenta la possibilità di dare una nuova vita alle cose, ma soprattutto alle persone. Come avere etica ed estetica in un colpo solo.
Quali obiettivi si pone Made in Carcere?
«Noi puntiamo a cambiare la vita delle persone, non vendiamo solamente le borse, quello forse è un pretesto. Stiamo vicino alle donne del nostro laboratorio per aiutarle in un percorso di nuova consapevolezza di sé, e in un secondo momento di auto imprenditorialità, quando saranno fuori dal carcere. Devono reinventarsi un mestiere, oltre che un percorso nella vita di tutti i giorni. E non è facile. Proprio qualche giorno fa ho convinto una ragazza che voleva gettare la spugna, ma alla fine è tornata a far parte dei nostri. L’istinto ad arrendersi è sempre in agguato. Infine, il nostro obiettivo è “contagiare” gli altri, innescando un circuito virtuoso di buone prassi di volontariato, invogliando al bello e al bene».
Perché è nato Made in Carcere?
«Sentivo l’esigenza di restituire tutta la ricchezza e il bene che avevo ricevuto nella mia vita precedente. Così mi è venuto in mente Made in Carcere. Ho lasciato Milano e sono tornata nella mia città per dare vita a questo progetto. In fondo, è una seconda vita anche per me»
“Made in Carcere” è il simbolo dell’etica del riuso, un invito ad un nuovo stile di vita anche per noi consumatori?
«Sicuramente il messaggio che vogliamo far passare è quello di diffondere la filosofia della “Seconda Opportunità” sia per le donne detenute sia per la “Doppia vita” per i tessuti. A questo mondo siamo ancora troppo consumisti. Con una nuova iniziativa avviata al carcere minorile di Bari, dove i ragazzi confezioneranno biscotti, siamo riusciti ad ottenere vecchi macchinari per la produzione che abbiamo restaurato e rimesso a nuovo. Anche questo è un messaggio di concretezza, di solidarietà, ma anche di rispetto per l’ambiente».
Come festeggerete questo decimo compleanno?
«Al primo piano del penitenziario abbiamo avuto un’ala che sarà tutta per noi. Una sorta di “maison” di Made in Carcere, con annesso ufficio, sala musica e sala riunioni. Un ambiente unico, con sorveglianza con telecamere, dove le detenute avranno più agio per muoversi, confrontarsi, lavorare e rigenerarsi».