Trasparenza salariale: a che punto siamo in Italia sul recepimento della direttiva Ue?

Norvegia, Svezia e Finlandia hanno già delle bozze di recepimento della direttiva europea sulla trasparenza salariale (Direttiva UE 2023/970). La Francia lo farà entro dicembre, la Germania gennaio. L’Olanda invece ha già annunciato il rinvio al 2027. I Paesi dell’Unione europea si stanno muovendo in ordine sparso nonostante la scadenza del prossimo giugno per il recepimento della direttiva. E l’Italia? Facciamo il punto sui tempi e i contenuti di una direttiva che definisce una nuova frontiera della parità di genere.

Mancano poco più di sei mesi alla data ultima per il recepimento, da parte degli stati membri, della direttiva europea sulla trasparenza salariale. Nata per contrastare il divario retributivo di genere – che in Europa è ancora al 12% e in Italia nel settore privato è del 20% – la sua applicazione è tutt’altro che scontata. Richiede infatti alle aziende politiche remunerative chiare e ruoli organizzativi ben definiti e comparabili.

Lo snodo del “pari valore”

Uno dei punti più critici della direttiva è proprio questo: come identificare i lavori di “pari valore”, per consentire il confronto tra gli stipendi di due colleghi? «Una classificazione è possibile- spiega l’avvocata Ornella Patané, partner di Toffoletto De Luca Tamajo ed esperta di diritto del lavoro per le imprese – ma a fronte di una rigorosa analisi organizzativa. Bisogna andare oltre i livelli stabiliti dai contratti collettivi e definire un sistema retributivo basato su criteri non discriminatori, oggettivi e neutri sotto il profilo del genere».

Per i quadri e dirigenti, per esempio, il divario salariale è normalmente maggiore e la parte variabile dello stipendio è più significativa. In questo caso sono ancora più utili parametri di valutazione granulari rispetto alla categoria legale di appartenenza. Per garantire la trasparenza salariale, molte imprese stanno già introducendo strumenti come il job grading. Un processo sistematico di valutazione e raggruppamento dei ruoli lavorativi in base al loro valore relativo all’interno di un’azienda, considerando i criteri previsti dalla direttiva quali responsabilità, competenze e condizioni di lavoro.

La “rivoluzione” in fase di selezione

La direttiva prevede inoltre che in fase di ricerca e selezione l’azienda renda pubbliche le informazioni su retribuzione – o fascia retributiva – iniziale per la posizione aperta e vieta alla stessa di richiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite. Vincoli introdotti per garantire la trasparenza salariale e non penalizzare le lavoratrici, che guadagnano mediamente meno e spesso hanno percorsi professionali meno lineari rispetto ai colleghi.

“Neutralizzare” disequilibri pregressi e focalizzarsi sul ruolo ricercato, con un’offerta economica chiara, potrebbe cambiare le regole del gioco, in un Paese in cui oggi richiedere l’ultima RAL è prassi quotidiana.

Il monitoraggio del divario

Le aziende dovranno essere anche pronte a fornire, ai dipendenti che lo richiedono, dati dettagliati sulla propria retribuzione rispetto a colleghi con mansione di pari valore. «E’ importante prepararsi – spiega l’avvocata Patanè – attraverso un’accurata analisi organizzativa, per determinare in modo chiaro il proprio sistema retributivo, e la ridefinizione dei processi di ricerca e selezione».

Ma non è tutto. Dal 2027 le imprese con più di 250 dipendenti – per arrivare nel 2031 alle aziende con più di 100 dipendenti – avranno l’obbligo di rendicontazione pubblica del proprio gender pay gap. «In caso di immotivato divario medio retributivo di genere pari ad almeno il 5% in qualunque categoria – precisa l’avvocata Patanè – le imprese avranno l’obbligo di valutazione congiunta con le organizzazioni sindacali, con l’obiettivo di ridurre tale divario».

I margini di manovra nel recepimento della direttiva

Nel recepire la direttiva, ci sono alcuni obblighi che sono “self-executive” e che il nostro Paese non potrà modificare in fase di recepimento, come per esempio l’obbligo di trasparenza in fase di recruiting e quello di informazione ai dipendenti. «Altri aspetti invece – chiarisce l’avvocata Patanè – necessitano una contestualizzazione da parte del Governo italiano. Prima di tutto la parte sanzionatoria, che è appannaggio di ogni singolo Stato, a patto che le misure siano efficaci e dissuasive».

Inoltre, la collaborazione tra l’azienda e i rappresentanti dei lavoratori sarà centrale, per la verifica e la risoluzione delle disparità retributive, e andrà dettagliata nel contesto italiano. In particolare, le parti sociali avranno il diritto di richiedere e ricevere, per conto dei dipendenti, informazioni scritte dettagliate sui livelli retributivi medi, suddivisi per genere e per gruppi di dipendenti che svolgono lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore. E qualora emerga un significativo divario retributivo di genere, i rappresentanti dei lavoratori saranno consultati per verificare l’esattezza dei dati e dei calcoli per una valutazione congiunta.

Le sinergie con la Certificazione per la parità di genere

La nuova direttiva rinforza i criteri di equità di genere nel mondo del lavoro già introdotti, su base volontaria, dalla Certificazione per la parità di genere. Ma la norma europea va oltre: «I due strumenti hanno uno stesso obiettivo ma corrono su binari paralleli. Per esempio hanno modalità di calcolo del pay gap diversi: la direttiva – precisa l’avvocata Patanè – introduce una soglia massima di divario salariale del 5%, mentre per esempio per la Certificazione è del 10%».

Certo è che gli impegni e le azioni adottate per la certificazione rappresentano un cambio culturale all’interno delle imprese importante che certamente aiuta anche nell’attuazione della direttiva europea.

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