Scuola multietnica: oltre 930mila gli studenti “stranieri”, ma due terzi sono nati in Italia

Ogni mattina, al suono della campanella, il mondo entra nelle classi italiane. Degli 8 milioni di studenti che frequentano le nostre scuole più del 10% sono stranieri e/o hanno un background migratorio. L’aula diventa così un laboratorio capace di anticipare le trasformazioni della società ma rischia anche di essere la metafora di un mondo di diritti mancati.

Bambine e bambini che crescono studiando la lingua, la storia, i valori del nostro Paese non si vedono riconosciuti come cittadini italiani a pieno titolo, ai sensi della legge, con effetti che si fanno sentire su livelli di istruzione e partecipazione alla vita pubblica.

Il multiculturalismo come pratica quotidiana

Gli alunni stranieri (cioè che non hanno la cittadinanza del nostro Paese perché neo arrivati o nati in Italia da genitori stranieri) sono oltre 930mila, pari all’11,6% del totale, secondo gli ultimi dati disponibili relativi all’a.s. 2023/2024 fotografati dal Dossier Statistico Immigrazione 2025 di Idos. Quasi 2 terzi di questi scolari (65,2%, pari a oltre 607mila persone) sono nati in Italia. Questa percentuale è in crescita visto che 11 anni fa erano poco più della metà, pari al 51,7%. 

La presenza di seconde – talvolta anche terze – generazioni ha aiutato anche a contenere il progressivo svuotamento delle aule nell’attuale contesto di bassa natalità (meno nascite significa anche meno iscritti). In 11 anni, a fronte di un calo degli studenti italiani del 12,5%, quelli con cittadinanza straniera sono cresciuti del 16%.

Yawp Festival

«C’è stato un cambiamento nell’utenza scolastica in questi 30 anni che purtroppo non è stato registrato», racconta ad Alley Oop Espérance Hakuzwimana, autrice del saggio «Tra i banchi di scuola». «Oggi il mondo dell’istruzione si trova a gestire questa pluralità – di colori, lingue ma anche di soggettività – ma lo percepisco molto in affanno nel tenere insieme tutte le intersezionalità». E così, ancora oggi, generazioni di studentesse e studenti con il loro portato di radici e identità sono invisibili.

Nel testo, edito per Einaudi, Hakuzwimana spiega cosa significhi educare in un periodo di trasformazione sociale e culturale e prova a immaginare una scuola plurale e aperta, pronta a affrontare una realtà multietnica. Il tema è stato anche al centro del panel «Costruire ponti: storie di inclusione e voci per la nuova scuola italiana» che ha visto la scrittrice dialogare con Eraldo Affinati, fondatore della scuola gratuita di italiano per migranti Penny Wirton, nella cornice di Festival Yawp, evento promosso e organizzato dalla Fondazione Francesco Morelli e dedicato al tema dell’educazione, alla sua evoluzione e al ruolo nella società.

Per affrontare il mondo che cambia il dialogo resta il migliore alleato: «Oggi è bene poter dare alle persone che attraversano il mondo dell’istruzione uno spazio per confrontarsi e costruire» spiega l’attivista culturale che lavora con giovani, associazioni e istituzioni culturali per smontare gli stereotipi alla base di tutte le discriminazioni. «La scuola si è vista costretta a dover costruire degli strumenti da zero, in ritardo rispetto a quello che già trovava dentro le aule ma per fortuna esistono iniziative locali e collettivi di insegnanti che cercano di colmare il divario», aggiunge l’autrice.

Servirebbero, inoltre, «pochi strumenti ma molto efficaci» in grado di alimentare la consapevolezza collettiva. Uno di questi è il riconoscimento della cittadinanza italiana che permetterebbe a molte persone «non solo di sentirsi parte integrante del Paese dove sono nate e cresciute, ma anche di poter partecipare attivamente al tessuto sociale, magari accedendo a concorsi o arrivando a ricoprire ruoli istituzionali burocratici».

Una scuola, due velocità

Essere riconosciuto come straniero non vuol dire per forza avere problemi con la lingua: chi nasce o cresce in Italia spesso ha una conoscenza completa dell’italiano ma le difficoltà, fotografa il report Chiamami col mio nome di Save the children, restano. Per gli studenti con background migratorio spesso la scuola è un percorso a ostacoli tra ritardi e dispersione scolastica, finendo per compromettere le aspirazioni e il futuro di migliaia di bambini e adolescenti.

Le disuguaglianze che colpiscono gli studenti con background migratorio hanno diverse cause, spiega sempre l’organizzazione. Oltre alle difficoltà socioeconomiche familiari, pesano l’orientamento scolastico penalizzante e forme di segregazione, come il white flight, cioè la scelta di alcune famiglie italiane di spostare i figli da scuole con molti studenti stranieri, dice l’organizzazione.

Nell’a.s. 2022/2023 la quota di alunni stranieri in ritardo scolastico è stata del 26,4% (con un picco del 48 nelle scuole secondarie di secondo grado). Una quota 3 volte superiore a quella degli italiani (7,9%, con punte del 16% alle scuole superiori). Sul fronte dell’apprendimento, nelle prove Invalsi gli studenti con background migratorio ottengono punteggi più bassi alle prove di italiano e matematica (ma più alti in inglese).

La dispersione implicita tocca punte preoccupanti tra gli studenti di prima generazione (22,5%), quasi il doppio degli italiani (11,6%), ma il dato migliora tra gli studenti di seconda generazione (10,4%).

Un’altra problematica “strutturale”, seppur in via di graduale risoluzione, riguarda le differenze nella scelta degli indirizzi di scuola superiore, con la tendenza degli alunni stranieri a frequentare gli istituti tecnici e professionali, percorsi formativi che garantiscono un accesso più rapido al mercato del lavoro.

Dopo le scuole medie, solo meno di un terzo degli alunni stranieri (32,9%) sceglie di proseguire gli studi in un liceo. Una scelta che invece viene fatta da oltre 1 alunno su 2 di origine italiana, a prescindere dal rendimento scolastico e dalla condizione socioeconomica.

Tra gli studenti senza cittadinanza più di un quarto non completa il percorso di istruzione secondaria di II grado e solo il 3,9% continua il percorso iscrivendosi all’università. E così tra i Paesi Ocse gli studenti con background migratorio italiani sono quelli che mostrano aspettative più basse (-12 punti percentuali) rispetto ai coetanei.

Gli effetti della cittadinanza

La normativa attuale impone di attendere il compimento dei 18 anni per acquisire la cittadinanza anche a ragazzi che nascono e si formano in Italia. Per questo motivo, da più parti, è emersa l’idea di uno ius scholae, cioè un tentativo di revisione della Legge 91/1992 che vuole collegare l’ottenimento dello status di cittadino al ciclo di studi.

Sebbene questo riconoscimento non sia sufficiente a colmare del tutto il divario con i nativi italiani, potrebbe contribuire a ridurlo in modo significativo — quasi dimezzandolo — in una fase cruciale della crescita. Al contrario non riconoscerlo causa di frustrazione e determina un senso di emarginazione, sottolinea Save the children.

La mancata riforma della legge sulla cittadinanza, fa notare ancora Hakuzwimana, esclude una parte significativa di persone dalla società, generando anche una mancanza di rappresentazione e visibilità: «se non mi vedo non esisto, e se non esistono non posso immaginarmi nel futuro”». Mentre una maggiore apertura, al contrario, «permetterebbe di inserire all’interno del sistema uno sguardo il più possibile plurale».

Come mette in evidenza un’analisi realizzata dal think tank Tortuga per Save the Children, il riconoscimento della cittadinanza agli studenti di seconda generazione influirebbe positivamente su percorsi scolastici, prospettive occupazionali, contribuendo di riflesso a ridurre le diseguaglianze. Per il bilancio dello Stato questo si tradurrebbe in benefici economici tra gli 800mila e i 3,4 milioni di euro ogni 100 nuovi cittadini.

Rimettere al centro le nuove generazioni, attraverso la cittadinanza, non è quindi solo una questione di giustizia intergenerazionale, ma un passo avanti anche per stimolare lo sviluppo economico dell’Italia, un Paese dove lo squilibrio demografico incide anche sulla crescita e che, restando ancorato a una legge di 30 anni fa, si dimostra lento nel leggere i cambiamenti della società.

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