
I dati sulla povertà alimentare in Italia risultano «preoccupanti» e richiedono «risposte articolate»: nel 2024 sono 4,2 milioni le famiglie che hanno manifestato almeno un segnale di deprivazione alimentare e sono 2,9 milioni quelle che hanno sperimentato deprivazione alimentare materiale che vuol dire non potersi permettere un pasto proteico almeno ogni due giorni. Lo rileva il rapporto ‘Atlante della fame in Italia: dati e politiche di contrasto alla povertà alimentare in Italia’ promosso da Azione Contro la Fame, Percorsi di Secondo Welfare e Università degli Studi di Milano, presentato alla Camera. Dalle analisi contenute nel rapporto emerge la rilevanza come fattore di rischio della dimensione economica e, in questo ambito, del cosiddetto ‘lavoro povero’.
Le elaborazioni contenute nel rapporto sulla base dei dati Istat mostrano ancora che lo scorso anno 681mila famiglie hanno affrontato momenti in cui non disponevano di denaro sufficiente per acquistare il cibo necessario e 766mila persone si sono trovate in condizioni di insicurezza alimentare moderata o grave.
L’indice sintetico ‘deprivazione alimentare’ individua nel rapporto le famiglie in cui è presente almeno uno di questi tre segnali: non potersi permettere una alimentazione adeguata, non avere denaro per il cibo necessario, non potersi permettere almeno una volta al mese di incontrare amici e/o parenti per mangiare insieme.
Gli effetti dell’inflazione
Nel report si evidenzia che se «negli ultimi dieci anni, in Italia, l’insicurezza alimentare grave è complessivamente diminuita», tuttavia «l’insicurezza alimentare moderata, misurata dalla possibilità di assumere una dieta adeguata (un pasto proteico almeno ogni due giorni), è tornata a risalire dal 2022»: un fenomeno, in controtendenza rispetto al trend europeo e che tocca il 9,9% della popolazione, pari a quasi 6 milioni di persone. Una inevitabile conseguenza – si rileva – dell’aumento dei prezzi al consumo, inclusi i beni alimentari, registrato nel biennio 2022-2023.
Più colpite le famiglie del Sud
L’Atlante approfondisce la rilevazione su base territoriale mostrando che nel 2023 le famiglie più colpite dalla deprivazione alimentare materiale risiedono nel Sud Italia con una incidenza del 14,3% rispetto allo 8,8% dell’intero territorio italiano. Da un approfondimento analitico ulteriore emergono comunque situazioni di deprivazione alimentare anche in territori mediamente ricchi, dove il costo della vita e, di conseguenza, della spesa alimentare risulta più elevato. Si evidenzia così una disomogenea distribuzione territoriale del fenomeno della povertà alimentare dove anche «regioni tradizionalmente più ricche sotto il profilo reddituale possono presentare forti disuguaglianze al loro interno e criticità se i livelli reddituali sono considerati unitamente al costo della vita».
Le famiglie numerose le più esposte
Dal punto di vista socio-demografico, risultano particolarmente esposte alla deprivazione alimentare le famiglie numerose con tre o più minori nel nucleo; le famiglie con componenti stranieri; le famiglie con titolo di studio non superiore alla licenza media. Particolarmente esposti al fenomeno – si rileva – anche i giovani fino a 34 anni, con un’incidenza del 10,8% per la deprivazione alimentare materiale e del 6,7% per quella sociale.
Un approfondimento, tramite analisi fattoriale, mette in luce ancora come in realtà la dimensione economica sia quella determinante nel condizionare il rischio di mancato accesso al cibo della famiglia. Da questa analisi emerge che «i fattori maggiormente coesistenti con il fenomeno siano bassi redditi, difficoltà di accesso alle cure e precarietà lavorativa». E’ di rilievo ad esempio che «tra le famiglie che dichiarano di aver rinunciato, per motivi economici, a una visita medica specialistica o a un trattamento terapeutico, la deprivazione alimentare è presente nel 47,1% dei casi, con un aumento di 32,8 punti percentuali rispetto alla media nazionale» (due fattori che, tra l’altro, rischiano di aggravarsi vicendevolmente).
Il nodo del lavoro: gli svantaggi del lavoro precario o part-time
Così come emerge che tra le famiglie in bassa intensità lavorativa o che hanno almeno un componente disoccupato l’incidenza della deprivazione alimentare risulta significativa raggiungendo rispettivamente il 43% e il 41,6 per cento. Nel rapporto si segnala che «chi si trova in bassa intensità lavorativa è particolarmente esposto al rischio di deprivazione alimentare e può talvolta trovarsi in una condizione addirittura deteriore rispetto a chi sia totalmente privo di occupazione. Spesso, un lavoro poco retribuito e ad orario notevolmente ridotto può essere condizione di maggiore svantaggio rispetto a uno stato di disoccupazione» perché comporta l’esclusione, parziale o totale, dai sussidi pubblici di sostegno al reddito mentre può aggiungere spese ulteriori per i trasporti, i pasti, la cura dei minori. Dall’analisi per categorie di lavoratori emerge inoltre che la più svantaggiata è quella dei dipendenti e, in particolare, di chi ha un lavoro a termine o part-time: da qui l’interrogativo su quanto il lavoro dipendente, pur garantendo maggiori tutele contrattuali, costituisca ancora oggi un sicuro fattore di protezione dal rischio di povertà.
Servono misure strutturali
Il rapporto analizza le misure di contrasto alla povertà alimentare esistenti in Italia: quelle pubbliche specifiche (Carta Dedicata a Te e Reddito Alimentare) e quelle a più ampio raggio come l’Assegno di inclusione e le altre misure di sostegno al reddito; e quelle portate avanti dal Terzo settore, riportandone aspetti positivi e criticità. Viene inoltre dedicato un focus specifico alle città metropolitane.
Per gli estensori del rapporto servono «risposte articolate, in grado di offrire sostegno mirato soprattutto alle fasce della popolazione potenzialmente più a rischio (giovani, donne, residenti del Sud, famiglie numerose, con stranieri o con basso titolo di studio)» con il passaggio da un approccio emergenziale a una strategia strutturale. Da qui le raccomandazioni di ‘Azione Contro la Fame’ rivolte alle istituzioni: riconoscimento del diritto al cibo nella legislazione nazionale; coordinamento tra autorità e attori competenti attraverso l’istituzione di un ‘tavolo di lavoro istituzionale permanente’; promozione di interventi orientati all’autonomia, attraverso percorsi personalizzati e con una forte componente di riattivazione personale, educazione alimentare ed empowerment; promozione di un lavoro che garantisca una vita dignitosa e l’accesso a una dieta sana, sostenendo un generale aumento dei salari in linea con il costo dei beni alimentari e favorendo il reinserimento lavorativo femminile attraverso servizi di conciliazione famiglia-lavoro, incluso l’accesso universale alle mense scolastiche; pubblicazione periodica di dati aggiornati e accessibili sui destinatari delle misure e sui risultati ottenuti, per costruire sistemi di monitoraggio in grado di valutare copertura, qualità ed efficacia degli interventi.
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