Fotografia come impegno: il Festival della Fotografia Etica di Lodi

© Federico Ríos, Cammino di disperata speranza

Da 16 anni il Festival della Fotografia Etica dà spazio a «tutte quelle voci che spesso sono relegate a narrazioni marginali», con l’obiettivo di «scuotere le coscienze e generare dialogo, creando ponti tra culture diverse», come dice il suo direttore, Alberto Prina. Fino al 26 ottobre, durante i fine settimana, Lodi trasuda mostre, workshop, letture portfolio, eventi educational, conferenze e, soprattutto, visite alle quasi 20 esposizioni dell’edizione 2025 condotte dagli stessi autori dei reportage, provenienti da 40 Paesi e 5 continenti.

Impegno civile

Quest’anno si avverte un calore e un’intensità particolari, un fervore intrecciato al clima del nostro Paese in queste settimane, nelle quali la locuzione “impegno civile” sembra scrollarsi di dosso molta polvere. La fotografia resta tuttora un mezzo di comunicazione cardine dei nostri giorni e qui, in una rassegna di fotogiornalismo, i fotografi garantiscono a chi guarda le loro immagini di essersi attenuti al codice deontologico del reporter che, per dirla in breve, recita: documento quel che ho visto, racconto ciò cui ho assistito.

Quanti di noi hanno sentito parlare del Darién Gap?

La bambina in apertura del pezzo, che guarda con preoccupata trepidazione il padre, coperto di fango come lei e sfinito, mentre appoggia la testa a un albero, appartiene a quel milione di persone che dal 2021 al 2024 hanno attraversato il Darién, la fitta giungla fra Colombia e Panama, divenuta un passaggio molto sfruttato, per quanto impervio, per gli Stati Uniti. Siamo nell’elegante Palazzo Barni, che ospita il World Report Award, il concorso internazionale del Festival, ed è il vincitore del Master Award, il reporter colombiano e collaboratore del New York Times Federico Ríos, a raccontarci con sensibilità e precisione il “Cammino di disperata speranza” al termine del quale, coloro che non muoiono per strada, riescono ad arrivare al muro di confine del Messico, dietro il quale si trincera l’America.

Le foto accurate e colme di sensibilità di Ríos permettono di dare un volto a individui che rischiano di ridursi a cifre in una statistica: scorrono davanti ai nostri occhi famiglie con bambini, anziani, donne incinte, persone fuggite da Kabul (!), dalla Cina, dal Nepal, in cerca di un futuro all’altro capo del mondo.  Sul percorso vediamo cadaveri, cadute, momenti di disperazione, ma anche una commovente, trascinante solidarietà umana che si stabilisce tra i migranti, pronti a soccorrersi vicendevolmente.

Campo rifugiati di Um Rakuba, Sudan, 2021. Alcune ragazze ritratte in un momento di riposo. © Cinzia Canneri

Corpi di donne come campo di battaglia

L’italiana Cinzia Canneri con “Corpi di donne come campi di battaglia” mostra la violenza di genere contro le donne, sia eritree in fuga da «uno dei regimi più repressivi al mondo», sia etiopi tigrine, che abbandonano il Tigray (nord Etiopia) insanguinato da una guerra intestina dal 2020: al di là di nazionalità ed etnie, entrambi gli eserciti (eritreo e federale etiope) convergono nell’utilizzare sistematicamente la violenza sessuale come arma di punizione e terrore. Co-fondatrice del collettivo di donne italiane, eritree, sudanesi ed etiopi Cross Looks, la Canneri ci fa percepire col suo bianco e nero intenso e struggente sentimenti, atmosfere e non detti. E queste storie, apparentemente lontane, diventano nostre: non a caso il suo reportage ha ottenuto, sia la menzione speciale del Festival, sia il premio del World Press Photo tra i progetti a lungo termine.

Sempre a palazzo Barni ci confrontiamo con due scenari bellici cui siamo ormai tristemente abituati: l’italiano Diego Fedele (“Sotto un cielo letale”) documenta con commossa partecipazione la mattanza dei civili ucraini, mentre il palestinese Loay Ayyoubm testimonia “La tragedia di Gaza”, che ha vissuto sulla propria pelle da dentro la striscia fino al febbraio del 2024. E concludiamo su questa sezione con due giovani: il tedesco Julius Nieweler (“Corre voce che la guerra sia vicina”) rende in immagini rarefatte e riflessive le inquietudini vissute dalla Moldavia alla vigilia delle elezioni nell’autunno del ’24, sospesa tra influenza russa e fascinazione per l’Europa, mentre il bengalese Zobayer Joti racconta con un linguaggio di grande forza, fatto di inquadrature originali e stranianti e di un bianco e nero di grana contrastata e polverosa, il mondo delle arti marziali in Bangladesh in “Viviamo per combattere”.

Le Vite degli altri

Una delle doti principali della fotografia è la capacità di rispecchiare le “Vite degli altri”, titolo della sezione in palazzo Modignani, dove spicca il lavoro della giovane tedesca Jana Margarete Schuler (“Tra sangue e glitter”) sulle “Luchadoras” di Ciudad Juárez, città messicana di frontiera che è, per numero di femminicidi, uno dei posti più pericolosi del mondo. Schuler racconta, con foto spettacolari ed empatiche, distillate in una luce morbida e malinconica, un gruppo di wrestler donne che trovano nella lotta libera non un semplice svago, ma una pratica che alimenta l’autostima e il senso di sicurezza, aiutandole a pretendere il rispetto del proprio ruolo in un contesto sociale sfidante. Ricordo altri due servizi: “Diventare padre”, della fotogiornalista dell’agenzia VII Adriana Zehbrauskas sui primi momenti di vita dei neonati in compagnia dei padri, fotografati nelle sale parto di cinque Paesi.

L’obiettivo, concepito con Unicef, è di stimolare la partecipazione dei padri ai primi mesi di vita dei propri figli: le neuroscienze hanno dimostrato infatti come l’interazione tra genitori e figli nei primi mille giorni di vita risulti decisiva per una crescita equilibrata e serena. L’altro reportage è “Dove acqua e polvere si incontrano nei sogni” di Skander Khlif, che esplora il delicato, complesso rapporto tra uomo e natura in Tunisia, territorio fragile minacciato da siccità, erosione costiera e desertificazione. Sono immagini poetiche e struggenti, soffuse dall’impalpabilità della sabbia e il vapore delle acque distanti.

I lupi artici. © Ronan Donovan

Ballare coi lupi

Nello spazio aperto dei giardini (Outdoor, via IV novembre) possiamo immergerci in uno dei lavori più belli e commoventi della manifestazione, “I lupi artici”, firmato dal reporter americano (originario del Vermont rurale) del National Geographic Ronan Donovan, impegnato dal 2016 a seguire i branchi nelle foreste e tundre artiche per farcene conoscere la vita libera e selvaggia, sempre più assediata dalla progressiva erosione del loro habitat da parte dell’attività umana. La vita del branco, le interazioni, i giochi, la caccia per conquistare la preda in una danza rituale, remota e terribile, che proviene dalle profondità dei tempi e dei ritmi naturali, ci aiutano a sciogliere i pregiudizi che separano esseri umani e animali e a vedere i lupi, oltre ogni barriera specista, come compagni di viaggio nella vita comune sul pianeta.

Ci sono numerose altre mostre che meritano una visita: il festival è ricco e  può essere una buona idea scegliere l’opzione che permette di ritornare in weekend successivi, magari per un incontro con gli autori dei reportage. Ascoltare dalla loro viva voce il racconto di quel che c’è dietro e attorno ai servizi fotografici permette di entrare dentro le storie con concretezza ineguagliabile.

Continuando a parlare dei lavori che più mi hanno colpito, voglio menzionarne alcuni dello Spazio No-Profit, nei magnifici chiostri rinascimentali dell’Ospedale vecchio: Lorenzo Foddai per l’Associazione sportiva dilettantistica (Asd) Roma Blind Football (“Le emozioni che ci regala il calcio”) documenta il calcio a 5 per non vedenti e ipovedenti, entrato tra le discipline paralimpiche dal 2004. Alternando scene di campo, ritratti degli atleti e momenti intimi, in un bianco e nero nitido e rispettoso, Foddai ci emoziona, facendoci sentire la straordinaria forza interiore di questi uomini, capaci di non arrendersi di fronte a un evento traumatico e penalizzante come la menomazione visiva.

Il fotoreporter Rai Giammarco Sicuro ci racconta invece, per Emergency, l’attività dell’unico ospedale specializzato nella realizzazione di protesi di tutto il Kurdistan iracheno. Il titolo “Gli artigiani delle protesi” spiega perfettamente il lavoro di realizzazione dei manufatti nel laboratorio di Sulaymaniyah, attraverso un’interazione continua con i pazienti. Il centro, che eroga anche fondamentali servizi di fisioterapia e riabilitazione, costituisce un’oasi di speranza in una zona disseminata di milioni di mine antiuomo e ordigni bellici, per la maggior parte risalenti al lungo conflitto tra Iran e Iraq (1980-88), permettendo a migliaia di persone di poter recuperare mobilità e riappropriarsi così della propria vita.

Samal è un ragazzo iracheno che ha perso entrambe le gambe e l’uso di un occhio per aver calpestato una mina di produzione italiana. Dopo una lunga riabilitazione è tornato a camminare grazie alle protesi fornite dal centro fondato da EMERGENCY. © Giammarco Sicuro per EMERGENCY

All’interno dell’ospedale si trova il Museo Paolo Gorini, illustre geologo e fisico (1813-1881) famoso principalmente per avere inventato la tecnica della pietrificazione per la mummificazione dei tessuti anatomici. Inquietante direte! Certo; ma anche affascinante, come il lavoro “Magic and Loss” del fotografo e artista Enrico Bedolo (circuito Off del Festival): le sue fotografie di mummie del museo sono sorprendenti, comunicano distanza e prossimità al tempo stesso, suscitando un grumo di sensazioni ambigue, ma meritevoli di essere approfondite.

Mahmoud Ajjour (9 anni) ferito durante un attacco israeliano a Gaza City nel marzo 2024 trova rifugio e assistenza medica a Doha in Qatar. © Samar Abu Elouf,

Da non perdere poi è la selezione del World Press Photo 2025 negli ambienti della Banca Popolare di Lodi: il più prestigioso premio di fotogiornalismo al mondo festeggia il suo 70° e offre come sempre un panorama di fondamentale importanza sulle situazioni più calde del pianeta. Quest’anno l’immagine vincitrice è stata realizzata per il New York Times dalla reporter palestinese Samar Abu Elouf, riparata a Doha, dove ha fotografato il giovane Mahmoud Ajjour, mutilato di entrambe le braccia a causa di un bombardamento israeliano a Gaza nel 2023.

Concludo la mia carrellata con due reportage, uno recentissimo, l’altro ormai storicizzato. Il primo, Il lato oscuro del Fast Fashion” firmato da Magnus Wennman per il quotidiano Aftonbladet, è il resoconto di un’inchiesta condotta sul ciclo di vita dei capi d’abbigliamento di una multinazionale svedese: Wennman scopre che gli abiti portati dai clienti nei negozi, confidando nella promessa che sarebbero stati riciclati, per la maggior parte finiscono in realtà in Africa occidentale. Le immagini di enormi cumuli di “abiti morti dei bianchi” (come sono chiamati) che ricoprono le spiagge del Benin e seppelliscono la laguna di Korle presso la capitale ghanese di Accra, creando enormi problemi ambientali, lasciano davvero basiti e mettono a nudo le drammatiche contraddizioni su cui si regge parte del sistema moda internazionale.

Nel suggestivo edificio della Ex Cavallerizza è allestito infine lo “Spazio Storia”, che ospita “Jugoslavia: atto finale. A trent’anni dal genocidio di Srebrenica” a cura della Fondazione VII. Una selezione di immagini di alcuni dei maggiori reporter della celebre agenzia racconta l’eccidio nel quale le truppe serbe di Bosnia Erzegovina, guidate dal generale Ratko Mladić, uccisero più di 8mila bosgnacchi (musulmani bosniaci) a Srebrenica, inserendo l’episodio nel più ampio contesto delle guerre che portarono alla dissoluzione della Jugoslavia. Nel processo a Mladić da parte del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia (TPIJ) sito a L’Aja alcune foto di Ron Haviv, celebre reporter e co-fondatore di VII, furono usate come prove d’accusa ed ebbero dunque un peso, nella condanna all’ergastolo per crimini di guerra, emessa nel 2017 a carico del “macellaio della Bosnia”.

La fotografia può dunque avere un suo peso sulla bilancia della storia.

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