
In Italia si contano 1.500 guide alpine. Di queste, meno del 2% sono donne. Il CAI, Club Alpino Italiano, annovera tra i suoi iscritti il 38% di donne, ma solo il 19% ricopre ruoli di leadership. Dati che parlano chiaro: la montagna è ancora lontana dall’equità di genere. Eppure, le donne che puntano in alto ci sono. Camminano, scalano, accompagnano, formano, accolgono. Il punto è: creare un ambiente che metta al bando bias e stereotipi di genere e favorisca una vera inclusione.
Il presidente del CAI, Antonio Montani, è il primo ad ammettere che il problema esiste, anche se c’è chi ancora rifiuta di vederlo. «Spesso parliamo di comportamenti implicitamente discriminatori che sono particolarmente difficili da eradicare perché corrono sottotraccia – commenta Montani -. Si nascondono nell’uso di un linguaggio non inclusivo, in pregiudizi alimentati da credenze lontane».
Dal congresso SAT alla nascita di Donne di Montagna
Promuovere l’empowerment femminile in montagna è una questione che corre su un doppio binario: da una parte, la governance, dall’altra, la valorizzazione della partecipazione delle donne alla vita outdoor. Un punto su cui sta lavorando l’associazione “Donne di montagna”, comunità basata sui valori della sorellanza e dell’inclusione fondata dall’accompagnatrice di media montagna, Marzia Bortolameotti. «Molte donne si trovano ad affrontare pregiudizi che mettono in discussione la loro competenza o la loro appartenenza all’ambiente montano. Micro aggressioni che finiscono per limitarne la partecipazione alle attività alpine» – denuncia.
Donne di Montagna è nato nel 2018 a partire da un congresso della SAT (Società Alpinisti Tridentini) dedicato al tema “Montagna al femminile”. Sul palco, per la prima volta, si alternarono le voci di donne guide alpine, rifugiste, pilote di elicotteri: professioniste che raccontarono le sfide quotidiane del vivere e lavorare in un mondo storicamente maschile. «Io – racconta la fondatrice – da sempre appassionata di montagna, in quel momento mi occupavo di tutt’altro, ma sentii un richiamo fortissimo e decisi di impegnarmi in prima persona. Capii che ciò che più serviva a quelle donne, e in parte anche a me, non erano le performance, ma le connessioni».
Una community nazionale per le donne in vetta
L’anno successivo, ha organizzato ad Arco di Trento il primo meeting italiano delle guide alpine donne, coinvolgendo centinaia di appassionate e gettando i semi per la nascita dell’organizzazione. Il progetto nel tempo è cresciuto, diventando un movimento di rottura e ricostruzione orientato al superamento del gender gap in alta quota, e non solo.
«Io per prima ho affrontato sfide connesse agli stereotipi di genere: ero assunta a tempo indeterminato, ma dopo la maternità il mio lavoro ha subito pesanti ridimensionamenti. Mi sono licenziata per dedicarmi interamente a “Donne di montagna” con l’obiettivo di creare una piattaforma su base nazionale. Non è stato semplice – ammette Bortolameotti –: ero una mamma single che lasciava un posto di lavoro all’apparenza ottimo per coltivare un progetto ancora acerbo. Sembrava una follia. E forse lo era, ma ero certa del valore della mia missione: far sì che più nessuna donna, in nessuna regione d’Italia, si sentisse esclusa dalla montagna solo per una questione di genere».
Il piano del CAI per più equità e inclusione
Per valorizzare la presenza femminile nelle attività alpine, nel frattempo, il CAI ha istituito una commissione pari opportunità e avviato un percorso per la parità di genere. «È inutile nascondersi dietro un dito, dobbiamo cambiare atteggiamento» – ammette il presidente. «Per favorire una consapevolezza diffusa rispetto al tema del gender gap in montagna, abbiamo avviato dei laboratori coinvolgendo i vertici centrali e regionali dell’associazione e abbiamo promosso una revisione statutaria che prevedrà l’utilizzo di linguaggio inclusivo in tutti i nostri documenti. Inoltre, abbiamo previsto una modifica nella governance: le 17 commissioni tecniche del CAI, al momento formate da 7 componenti l’una, dovranno prevedere a ogni rinnovo triennale almeno tre persone del genere meno rappresentato» – chiarisce Montani.
La conquista di una cima, dopo tutto, ha molto a che fare con il raggiungimento di un ruolo di leadership. Si nutre delle stesse difficoltà: salite ardite, spesso solitarie, portate a termine a costo di grandi sacrifici, con la volontà di disinnescare pregiudizi sedimentatisi nel tempo e di mettere a tacere la sindrome dell’impostora che accompagna molte donne. Promuovere la diversità e l’inclusione, in montagna così come nella vita di tutti i giorni, deve essere un lavoro di squadra basato su fiducia, collaborazione e riconoscimento.
Valorizzare le conquiste femminili
«I cammini alpini – chiarisce Bortolameotti – diventano occasione per accrescere l’autostima e migliorare l’autonomia. Durante le escursioni, le donne si aiutano, costruiscono legami unici e scoprono storie spesso rimaste nell’ombra. Come quella di Henriette d’Angeville, che nel 1838 salì il Monte Bianco con abiti femminili tradizionali, o di Dorothy Pilley, pioniera dell’alpinismo tecnico nelle Alpi. O ancora, di Annie Smith Peck, che nel 1908, a 58 anni, divenne la prima persona a scalare la vetta nord del Nevado Huascarán, una delle montagne più alte delle Ande peruviane, raggiungendo i 6.768 metri. E lo fece, indossando dei pantaloni, gesto considerato rivoluzionario per l’epoca».
Imprese che si intrecciano a quelle più recenti e altrettanto epiche di Nives Meroi, unica alpinista ad aver salito dodici cime sopra gli ottomila metri, senza uso di bombole di ossigeno e senza impiego di portatori d’alta quota; di Anna Torretta, pluri-campionessa italiana di arrampicata sul ghiaccio e vice campionessa del mondo di questa specialità, o di Tamara Lunger, scialpinista ed esploratrice di fama mondiale, seconda donna italiana ad aver arggiunto la vetta del K2.
E accanto a loro, forse meno note ma non meno significative, le vite delle rifugiste Roberta Silva, gestrice di un rifugio a quota 2283 metri sul Catinaccio e presidente dell’Associazione Gestori Rifugi del Trentino, della boscaiola Vania Zoppè, dell’elicotterista Noemi Bertolini, della casara Erika Maistrelli e della ciclista Silvia Grua, che ha pedalato per un dislivello di 8.848 metri (quanto l’altezza dell’Everest), e molte altre.
Ognuna protagonista di una straordinaria ricerca di spazio e libertà in contesti per lungo tempo ritenuti maschili. Donne che ispirano altre donne a crescere, a sfidarsi, a conquistare spazio, sempre più in alto.
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