
In Italia, le startup fondate o co-fondate da donne sono ancora poche. Secondo gli ultimi dati Unioncamere che si riferiscono al primo trimestre del 2025, solo il 13,84% delle startup innovative (pari a 1.684) è a prevalenza femminile, mentre quasi il 45% (pari a 5.438) vede almeno una donna tra i soci. Eppure, quando riescono a sopravvivere, queste imprese spesso performano meglio della media. Il problema, però, è arrivarci: raccogliere capitali è più difficile, più lento e più costoso. I motivi sono tanti e stratificati: bias inconsci nei processi di valutazione degli investitori, una cultura imprenditoriale ancora poco inclusiva e una presenza femminile molto ridotta nei ruoli decisionali del venture capital.
Cambiare, però, è possibile. Lo dimostrano alcune esperienze europee, dove si è deciso di inserire obiettivi di parità direttamente nei programmi di finanziamento all’innovazione. In questo scenario in movimento si inserisce la voce di Chiara Petrioli, professoressa ordinaria di ingegneria informatica, automatica e gestionale presso la Sapienza Università di Roma, fondatrice della startup deeptech WSense (che sviluppa tecnologie per reti sottomarine wireless, permettendo la comunicazione e il monitoraggio in ambienti subacquei tramite sensori e sistemi di trasmissione dati innovativi) e oggi presidente di InnovUp, l’associazione che dal 2012 rappresenta la filiera dell’innovazione italiana.
Il gender gap dell’innovazione: più difficile raccogliere, più difficile scalare
«Le imprese femminili faticano di più ad attrarre investimenti: raccolgono meno, in più tempo e a condizioni peggiori. Le domande che vengono rivolte alle donne founder – sottolinea Petrioli – sono spesso incentrate sui rischi, mentre agli uomini si chiede delle potenzialità. Il risultato è che, nonostante performance spesso migliori in termini di roi (return on investment), le donne accedono a una quota minima di capitali».
Anche i dati del Report on gender equality in the Ue 2025 confermano la disparità: solo il 2% del capitale investito va a startup con leadership esclusivamente femminile, contro l’82% destinato a team interamente maschili. Il 15% va invece a team misti. «Sul piano temporale – spiega Petrioli – i dati mostrano che il 53% delle startup guidate da uomini trova un investitore nei primi sei mesi, contro appena il 31% di quelle femminili. E mentre tra i sei e i dodici mesi trova un investitore un ulteriore 38% delle imprese maschili, solo il 41% di quelle femminili riesce a chiudere un round entro l’anno». Anche nei ruoli decisionali del venture capital la presenza femminile resta bassa: solo il 14% delle “key people” è donna. E questo, chiarisce l’esperta, non è un dettaglio di poco conto perché «la composizione dei team decisionali influenza direttamente chi ha accesso ai fondi e in che modo viene valutato il potenziale di un progetto».
I segnali positivi: quando l’inclusione è strategia
Non mancano, tuttavia, i segnali di svolta. Petrioli siede nel board dell’European innovation council, dove il programma Accelerator ha introdotto kpi specifici per aumentare la quota di imprese deeptech femminili finanziate: «Nel 2020 erano l’8%. Oggi siamo al 30%, e l’obiettivo per il 2025 è il 50%», racconta la presidente di InnovUp. Il risultato è frutto di un insieme coordinato di strumenti: panel di valutazione misti, mentorship mirata, role model visibili. «Nel deep tech – il settore su cui spesso si dice che le donne non ci siano – i dati ci dimostrano che, se si creano le condizioni giuste, le imprese femminili emergono eccome», continua Petrioli.
Anche in Italia, alcune iniziative vanno in questa direzione. «È il caso del premio GammaDonna, che dal 2004 valorizza l’imprenditoria femminile innovativa, o di Angels for women, che sostiene founder donne con percorsi di mentoring e accesso al capitale. Come InnovUp vogliamo rafforzare queste reti, creare accesso e rappresentanza per le donne che innovano», aggiunge la presidente.

Italia e innovazione: segnali di cambiamento
Se si guarda invece più in generale al mondo delle startup, al di là del focus sul gender gap, emerge un quadro in trasformazione ma ancora incompleto. Secondo i dati più recenti del ministero delle Imprese e del made in Italy, in Italia ci sono oltre 12mila startup innovative iscritte al registro, attive soprattutto nei settori del software, della ricerca scientifica e tecnica, e della manifattura ad alto contenuto tecnologico.
Il numero è in crescita, ma la dimensione media resta molto contenuta, così come la capacità di attrarre capitali rispetto ai competitor europei. «Negli ultimi anni l’interesse verso l’ecosistema dell’innovazione è indubbiamente cresciuto anche in Italia» osserva Petrioli che continua: «Sono aumentati gli investimenti, si sono moltiplicati i programmi di incubazione e accelerazione, e il venture capital ha iniziato a guardare anche a territori prima considerati marginali». Una dinamica positiva, ma ancora incompleta: «Quel che ancora manca – sottolinea – è un vero salto culturale, capace di trasformare le idee migliori in imprese solide, competitive anche a livello internazionale».
Un nodo normativo e culturale: la ricerca non basta
Trasformare la conoscenza in impresa, far diventare le idee migliori business innovativi: è una sfida che l’Italia avrebbe tutte le carte in regola per affrontare, forte di eccellenze riconosciute sia nella ricerca che nel tessuto imprenditoriale. Eppure, osserva Petrioli, «finora ci è mancato un ecosistema capace di tenere insieme competenze, investitori, regole e ambizione».
Un punto critico riguarda il rapporto tra università e startup. La legge 240, che ha consentito la nascita degli spin-off universitari, pone ancora una serie di vincoli per i docenti e i ricercatori che decidono di fondare un’impresa e vogliono mantenere un ruolo attivo nel suo sviluppo.
In particolare, la normativa richiede autorizzazioni e può prevedere l’aspettativa obbligatoria o la rinuncia a incarichi accademici nel caso di partecipazione diretta alla gestione della startup, rendendo di fatto più complesso quel passaggio tra ricerca e mercato che in altri Paesi avviene in modo più fluido. «Eppure – spiega l’esperta – gli investitori chiedono la presenza attiva dei fondatori. Questo crea un buco normativo che frena la crescita proprio delle realtà più promettenti». Non è solo una questione legale. Anche le metriche con cui viene valutato il lavoro accademico non premiano la propensione all’imprenditorialità. «Gli atenei valutano principalmente ricerca e didattica. Ma servono meccanismi incentivanti anche per chi trasforma la ricerca in impresa. Altrimenti disperdiamo un potenziale enorme», osserva la presidente di InnovUp.
Un sistema da ripensare e da incentivare
Un altro passo che l’Italia dovrebbe fare per sostenere l’ecosistema dell’innovazione è secondo Petrioli, iniziare a pensare alle startup come lo fa l’Europa: imprese giovani ma con una fortissima ambizione di crescita. Un punto di vista che implica la volontà e la capacità di andare oltre i numeri e comprendere quelle che sono (o che dovrebbero essere) le dinamiche e i bisogni che muovono una startup. «Il registro – sottolinea Petrioli – fotografa solo una parte del fenomeno. Quello che non misura è la volontà di scalare, di diventare l’early stage di un’impresa più grande. Un passaggio per il quale serve un’accelerazione che non è lineare, ma necessaria per cogliere le opportunità del mercato globale. E servono regole, capitali e competenze che accompagnino questo percorso».
Va in questa direzione la recente defiscalizzazione degli investimenti in startup, che può arrivare fino al 65% di detrazione fiscale. Ma, osserva Petrioli, serve di più: «È necessario creare un quadro stabile che favorisca il ricorso al capitale privato, consenta di assegnare stock option ai dipendenti e renda il sistema italiano competitivo rispetto ad altri ecosistemi internazionali come quello della Silicon Valley». Tra gli strumenti chiave anche l’apertura agli investimenti dei fondi pensione, e il rafforzamento delle reti transnazionali: «Si stanno aprendo nuove leve di investimento – spiega l’esperta – anche su iniziativa governativa. È una contaminazione che fa bene. Il mondo del venture capital deve diventare sempre più internazionale, perché dal giorno uno a un imprenditore viene chiesto di pensare global».
Un’Europa che fa rete e recupera terreno
Ma per far compiere un vero salto di qualità all’innovazione italiana, secondo Petrioli, serve soprattutto una cosa: fare rete con il resto d’Europa. Una strada già indicata nel rapporto redatto dall’ex presidente del Consiglio Mario Draghi per la Commissione europea dove viene indicato il ruolo delle startup come leva fondamentale per la crescita e la competitività futura del continente. Il documento, presentato a settembre 2024, analizza le sfide dell’economia europea e individua nell’innovazione una delle chiavi principali per rilanciare sviluppo e produttività.
«È quello che l’Europa non è riuscita a fare negli ultimi trent’anni – puntualizza Petrioli – e che ha fatto sì che si perdesse competitività e possibilità di sviluppo economico. In realtà, tanto in Europa quanto in Italia, esiste una forte capacità di innovazione, grazie anche a un sistema universitario di eccellenza. Ma ciò che è mancato finora è un ecosistema capace di valorizzarla davvero».
Qualcosa però negli ultimi anni, secondo l’esperta, sta iniziando a cambiare: «si cominciano a vedere segnali positivi, con iniziative che mettono in connessione le startup italiane con quelle di altri Paesi. È una contaminazione che fa bene, non solo alle imprese, ma anche agli investitori. Perché pensare globale non è un’opzione: è il punto di partenza».
Il ruolo delle associazioni e la visione per il futuro
Alla luce di queste sfide – economiche, culturali e normative – anche le associazioni di rappresentanza, secondo Petrioli, possono e devono svolgere un ruolo attivo nel promuovere un ecosistema più equo e competitivo. «Le associazioni non devono essere semplici osservatori, ma attori che portano le istanze delle imprese innovative, incluse quelle guidate da donne, sui tavoli dove si definiscono le strategie», precisa la presidente.
InnovUp lavora per mettere in rete università, imprese, investitori e istituzioni, favorendo il dialogo tra attori diversi che insieme possono far crescere l’innovazione italiana. «Oggi il mondo delle startup – sottolinea l’esperta – non va considerato come una fase passeggera di pochi anni. È un processo continuo, che ha bisogno di visione, regole chiare, incentivi e una prospettiva internazionale». Petrioli ha assunto la presidenza di InnovUp nel dicembre 2024, raccogliendo il testimone di un’altra donna, la fondatrice di Orange Fiber Enrica Arena. «Anche il fatto che le ultime due presidenti siano donne è un segnale. Ma non basta: le associazioni devono portare queste istanze sui tavoli in cui si definiscono le strategie», evidenzia. Le donne, conclude, «sono già parte di questa storia. Quello che serve ora è metterle in condizione di guidarla».
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