L’intelligenza artificiale è a favore o contro le donne?

Un super archivio digitale che valorizza il contributo femminile alla filosofia hegeliana usando la realtà aumentata. L’Ai vista come strumento che libera da mansioni routinarie, che migliora i servizi pubblici, della Pa, che aiuta in particolar modo le donne sulle quali grava la maggior parte del carico familiare. Sono solo alcuni esempi di come le nuove tecnologie possano dare una mano alla valorizzazione del talento femminile, del ruolo delle donne, anche delle figure a cui nel passato non si è dato il giusto riconoscimento.

D’altro canto, le donne sembrano più restie degli uomini a usare i nuovi strumenti: stando all’ultimo rapporto Ocse  solo il 29% delle donne usa nel lavoro l’Ai generativa, a fronte di 41% degli uomini. «La cifra delle donne – nota il filosofo Luciano Floridi – che usa l’Ai corrisponde a quella delle donne coinvolte nelle Stem, il 29 per cento. C’è un’assenza gravissima: abbiamo risorse umane che non stiamo ingaggiando e competenze essenziali che potrebbero essere utilizzate».

Ci sono inoltre casi in cui il problema è a monte: è l’algoritmo che discrimina le donne perché si basa su dati esistenti già inficiati: è avvenuto in passato, è avvenuto anche in anni più recenti. Un primo esempio di pregiudizio algoritmico sulle donne riguarda un fatto accaduto negli anni ‘80 alla St. George’s University di Londra. Un errore di valutazione portò ad escludere molte studentesse all’ammissione ai corsi. Ma le donne sono state escluse anche di recente, a causa di un algoritmo, nella selezione di candidati. Modalità su cui si è fatta marcia indietro.

Come premessa, sgombrando il campo da eventuali stereotipi e pregiudizi bisogna ricordare che la tecnologia non è mai buona o cattiva, ma non è neanche neutrale, dipende da come la si usi. E che non è l’Ai a discriminare ma semmai è chi la usa che discrimina. E quindi il lavoro da fare è sul terreno culturale e va fatto a monte.

Il giusto tributo alle donne nella storia

Iniziative come quella che si è tenuta all’Università di Roma Tre, nell’ambito del programma di alta formazione Samsung Innovation Campus, vanno nella direzione giusta. È stato infatti presentato il progetto di ricerca “Hegelian Constellations of the Feminine: a Hyper-Archive for an Inclusive Bildung”, che ha portato alla creazione di FemHaB e sicuramente fa compiere un salto in avanti verso l’inclusione delle donne.

Si tratta di un progetto che celebra il ruolo delle donne nel pensiero filosofico,  riconoscendo il femminile come elemento fondante del sapere. «L’intelligenza artificiale avrà un impatto significativo sul mondo del lavoro, portando all’evoluzione di alcune professioni e alla creazione di nuove, ma una certezza resta: ogni lavoro, attuale o futuro, dovrà prevedere l’uso dell’AI e trarne vantaggio. È fondamentale però che sia l’essere umano a guidare questo processo, sottolineando l’importanza del fattore umano» ha dichiarato Anastasia Buda, head of Esg, Corporate Citizenship & Internal Communication Manager di Samsung Electronics Italia.

Perché i pregiudizi colpiscono le donne

Con le nuove tecnologie, a fronte delle opportunità, esiste anche il rischio di gap augmentation tra uomini e donne, come di recente sottolineato da Irene Finocchi, professoressa di informatica all’Università Luiss Guido Carli dove dirige il dipartimento di Ai, data and decision sciences.

Per Helosie Greeff, ricercatrice di Oxford, «i pregiudizi algoritmici colpiscono le donne soprattutto perché i modelli di Ai imparano dai dati storici, che spesso riflettono le disparità di genere esistenti e le disuguaglianze sistemiche del mondo reale. Se un set di dati rappresenta poco le donne, un algoritmo potrebbe non essere addestrato a riconoscere o a rispondere accuratamente alle loro esigenze. Un esempio ben documentato è la tecnologia di riconoscimento facciale, dove i pregiudizi derivano dalle differenze di dimorfismo sessuale (rapporto NIST 2022). Inoltre, l’industria dell’Ai ha storicamente utilizzato un metodo per bilanciare la rappresentazione di genere nei set di dati, scartando alcuni dati maschili quando le donne erano sottorappresentate. Questo, però, ha involontariamente portato i modelli a diventare più sensibili alle variazioni dei dati maschili, rafforzando i pregiudizi anziché eliminarli».

L’esempio del supermercato

Un ottimo esempio di quanto sia importante stare attenti agli aspetti etici è quello di Walmart che negli Stati Uniti aveva condotto un’analisi su come le persone si muovono all’interno del supermercato. «Basandosi sul modo in cui le donne attraversavano il supermercato e su ciò che prendevano, si poteva prevedere – racconta Greef – se una donna fosse incinta, molto spesso anche prima che lei stessa lo sapesse. Era dunque importante chiedersi che cosa si potesse fare con queste informazioni e se fosse eticamente consentito, ad esempio, vendere a questa donna prodotti diversi proprio perché in possesso di quelle informazioni».

Greef cita un altro caso che le è successo personalmente e in cui ha fatto prevalere le implicazioni etiche: «Usavamo degli algoritmi per prevedere i guasti delle pompe a mano per tirar su l’acqua in Africa. Era un progetto finanziato dall’Unicef con l’obiettivo di conoscere l’impatto della mancanza di accesso all’acqua sulle donne, che sono le principali responsabili della raccolta, e sui bambini. Avevamo i dati relativi ai guasti delle pompe, ma non potevamo etichettarli, differenziandoli tra quelli riferiti agli uomini e alle donne. Qualcuno ci ha suggerito di mettere una telecamera…. mi sarebbe piaciuto avere queste informazioni, mi avrebbe reso la vita molto, molto più facile. Ma io, che ero l’unica donna del team, sapevo anche che la pompa non rappresenta solo un luogo dove raccogliere l’acqua, ma molto spesso anche un luogo dove fare il bagno e socializzare. Non avrei mai messo una telecamera in un bagno pubblico in Europa o da qualche altra parte. Quindi perché farlo lì? Avere qualcuno nel team che porti un punto di vista diverso, forse più empatico, rispetto ai dati da raccogliere e alla nostra responsabilità in merito è fondamentale».

Più donne nei posti chiave delle nuove tecnologie

Rischi e opportunità dell’Ai sono dunque aspetti della stessa medaglia e occorre chiedersi cosa bisognerebbe fare per ridurre il gender gap anziché aumentarlo. «Avere più donne nei posti chiave delle nuove tecnologie è l’esigenza attuale», conferma Heloise Greef.

«Personalmente ritengo che le donne apportino una prospettiva diversa alla fase di sviluppo degli algoritmi di intelligenza artificiale. Ad esempio, se si esaminano i conti di risparmio e le abitudini di spesa delle persone, non ci sono dati storici sulle donne, semplicemente perché in passato non avevano conti bancari», racconta la ricercatrice che è anche esperta di finanza, offrendo consigli di investimento in qualità di popular investor sulla piattaforma eToro. «È una disparità che c’è sempre stata ma che oggi l’intelligenza artificiale sta catturando. In questo momento il ruolo delle donne è dunque quello di portare consapevolezza ai vari tavoli perché credo che sia la cosa più importante per affrontare le disuguaglianze nell’acquisizione dei dati».

Cruciale diventa  anche aumentare la rappresentanza delle donne nell’universo degli sviluppatori di algoritmi. «In questo campo la forza lavoro è proprio bassissima, lo 0,3% dell’occupazione globale secondo il rapporto Ocse. Le donne rappresentano all’interno di questa percentuale un gruppo estremamente ristretto e avere poche donne in grado di progettare sistemi informatici e di Ai comporta il rischio di perpetuare bias che a volte neppure ci rendiamo conto di avere», spiega Finocchi in una recente intervista. Il problema della sottorappresentazione delle donne si sposa con quello della carenza di regole adeguate.  «Premesso che l’Europa ha un sistema di regole tra i più avanzati, la regolamentazione non è al passo e probabilmente – aggiunge Greef – non lo sarà abbastanza presto».

 La soluzione passa per istruzione e formazione

La strada migliore per eliminare il rischio di aumento del gender gap con le nuove tecnologie passa non solo dall’aumento delle donne nei posti chiave e tra gli sviluppatori di algoritmi, ma ancor prima, a monte, a livello di istruzione e formazione. Se ne è discusso nel primo convegno pubblico dell’associazione Ten (Tecnologia economia e normativa) intitolato ‘Il digitale può essere una opportunità per ridurre il gender gap?.

Il problema è stato sviscerato con una fotografia dei numeri, condotta dall’economista Giovanni Amendola,  e della normativa (realizzata dall’avvocata Silvia D’Alberti) e sono state proposte soluzioni e impegni, partendo dal concetto che occorre agire non solo per realizzare pari opportunità ma anche per ragioni prettamente economiche, visto il boost che il lavoro di qualità delle donne rappresenterebbe per il pil europeo e per affrontare la crisi demografica che ci porterà, altrimenti,  a una carenza sempre più grande di competenze.

Il lavoro da fare è culturale, va realizzato abbattendo vecchi stereotipi sui lavori da donne e da uomini, e iniziando dalla scuola visto che, come ha sottolineato Eleonora Faina, vice direttrice generale di Unione Industriali Torino e già dg di Anitec-Assinform, «le ragazze talvolta si perdono già alle medie» per quanto riguarda l’interesse nelle materie Stem. La parola chiave, ha confermato Mirta Michilli, direttrice di Fondazione Mondo Digitale, è l’istruzione, ma va fatto un lavoro strutturato e non basato solo su singole, seppur tantissime e meritorie, iniziative. Giovanna Labartino del Centro Studi di Confindustria ha posto l’accento anche sulla necessità di formazione e di reskilling dei lavoratori con l’obiettivo, valido per donne e uomini, di aumentare la produttività mentre Roberto Basso, direttore delle relazioni esterne e della sostenibilità di Wind Tre, ha sottolineato l’importanza di una politica inclusiva nelle aziende, a 360 gradi.

In Italia, la rappresentanza delle donne nelle discipline Stem è oggi significativamente inferiore rispetto agli uomini, con un gap che si riflette nel mercato del lavoro, ma anche sulla crescita economica dei Paesi. Solo il 16,8% delle ragazze laureate in Italia ha studiato materie Stem, mentre questa percentuale è del 37% per i ragazzi.

«Nel Regno Unito – commenta Greef – ci sono molte iniziative da parte del governo per aiutare le ragazze, anche in età scolare precoce, a scegliere i settori Stem. Statisticamente, se si guarda all’ingresso agli studi, penso che abbiamo raggiunto il punto in cui, in alcuni scenari, ci siano perfino più donne. Ma il problema spesso è a valle. Le donne studiano, finiscono il percorso, iniziano delle carriere Stem ma poi non continuano quei lavori, per molte ragioni. Alcune, ad esempio, scelgono giustamente di essere madri a tempo pieno. Probabilmente oggi viviamo una delle migliori condizioni di parità della storia, ma c’è ancora molta strada da fare», conclude la ricercatrice di Oxford.

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