In un’Europa sempre più anziana e con un saldo demografico negativo, l’immigrazione non è più solo un tema di accoglienza: è una delle chiavi per garantire crescita, produttività e sostenibilità dei sistemi di welfare. È quanto emerge da un report di Mediobanca, che analizza l’impatto economico dei migranti economici e dei rifugiati sui Paesi ospitanti. La ricerca rivela che, se ben gestiti, i flussi migratori possono contribuire fino a due punti percentuali di Pil, ma a una condizione: investire nelle politiche di integrazione per trasformare i costi iniziali in benefici strutturali.
Demografia: la vera emergenza europea
In Europa il tema migratorio si intreccia con la questione demografica come mai prima d’ora. Da anni il continente fa i conti con un progressivo calo delle nascite e un aumento dell’età media che minaccia la sostenibilità del welfare e la competitività economica. Secondo le stime delle Nazioni Unite, già all’inizio degli anni Duemila l’Italia avrebbe dovuto accogliere almeno 251mila migranti all’anno per bilanciare il saldo naturale negativo. Oggi, secondo il Def 2023, il fabbisogno è ancora di 195mila unità annue, ma con un contesto aggravato dalla fuga all’estero di giovani qualificati: circa 145mila partenze ogni anno di laureati e professionisti in cerca di migliori opportunità.
L’effetto di questa dinamica è evidente: senza nuovi ingressi, il debito pensionistico italiano potrebbe arrivare al 16,2% del Pil entro il 2070, rispetto al 13,6% previsto in uno scenario che include i flussi migratori. Per invertire la rotta servirebbe un tasso di fecondità pari a 2,1 figli per donna, un obiettivo lontanissimo dall’attuale 1,24 e mai raggiunto stabilmente in Italia.
Non è solo un problema di conti previdenziali: l’aumento del rapporto tra anziani e popolazione attiva – atteso in crescita del 60% entro il 2060 – aggrava la pressione sul mercato del lavoro e limita la capacità produttiva del Paese. Di fronte a questo scenario, la migrazione diventa uno strumento fondamentale non solo per riequilibrare la popolazione, ma per sostenere la crescita economica. Ma – sottolinea Mediobanca – questo potenziale può essere colto solo se i migranti vengono integrati e valorizzati, trasformandoli da semplice quota statistica a risorsa produttiva.
Migranti economici: il motore della crescita
I migranti economici rappresentano una risorsa strategica per i Paesi ospitanti perché colmano i vuoti di manodopera nei settori a bassa qualifica — come agricoltura, edilizia e servizi alla persona — dove la domanda supera l’offerta locale. Oltre a portare competenze e disponibilità per mansioni che spesso non vengono scelte dai lavoratori italiani, la loro presenza favorisce anche la mobilità occupazionale: permette agli italiani di accedere a posizioni più qualificate e meglio retribuite, innescando un meccanismo virtuoso di crescita economica. Questo effetto di sostituzione e avanzamento professionale contribuisce ad aumentare la produttività complessiva, con un impatto positivo sul Pil. Secondo le stime contenute nel report di Mediobanca, un aumento dell’1% del rapporto migranti/popolazione adulta può tradursi in una crescita del Pil fino al 2% nel lungo periodo, grazie anche alla spinta sulla produttività totale dei fattori (Tfp), cioè la capacità di generare più output a parità di risorse utilizzate, grazie a miglioramenti tecnologici, organizzativi o innovativi.
Perché questo potenziale possa realizzarsi, però, serve una strategia di ingresso coerente con le esigenze del mercato del lavoro. In Italia, tra il 2014 e il 2023, i permessi di soggiorno per motivi di lavoro sono stati meno del 15% del totale, mentre quelli per motivi familiari hanno superato il 40%. Questo dato evidenzia la mancanza di una politica mirata all’attrazione di lavoratori qualificati, condizione essenziale per trasformare la presenza dei migranti in una leva di crescita.
Rifugiati: una sfida di lungo periodo
Più complesso è l’impatto dei rifugiati. I dati evidenziano che circa l’80% dei rifugiati trova accoglienza nei Paesi in via di sviluppo, ma il 16% si stabilisce in economie avanzate. Qui, l’integrazione è lenta: nei primi dieci anni i tassi di occupazione dei rifugiati restano inferiori a quelli dei migranti economici e dei lavoratori italiani. Solo dopo 11-19 anni si osserva un allineamento parziale nei tassi di occupazione, mentre il divario salariale tende a persistere. Questo è dovuto a barriere linguistiche, al limitato trasferimento delle competenze professionali e soprattutto alla condizione di fragilità psicologica e sanitaria: molti rifugiati hanno vissuto violenze, persecuzioni e viaggi forzati che lasciano segni profondi e rendono più complesso l’inserimento lavorativo.
Inoltre, l’incertezza sul ritorno nel Paese d’origine — spesso presente nei rifugiati — può frenare la volontà di investire nella propria formazione e integrazione. Tuttavia, dopo dieci anni di permanenza, circa il 49% dei rifugiati acquisisce una buona padronanza della lingua locale, aumentando le possibilità di inserimento lavorativo. È la conferma che politiche di integrazione efficaci possono trasformare un costo iniziale in una risorsa economica, in un contesto di carenza di manodopera e invecchiamento della popolazione.
Inclusione: la politica che fa la differenza
Le simulazioni econometriche di Mediobanca dimostrano che le politiche di integrazione possono ribaltare l’esito economico dell’accoglienza. Nel caso di status quo, l’impatto dei rifugiati sul Pil è modesto (+0,15 punti percentuali), ma con un raddoppio della spesa per l’integrazione (formazione linguistica, corsi professionali, servizi sociali), il contributo sale a +0,64 punti. Con una piena integrazione (competenze professionali e linguistiche comparabili a quelle dei lavoratori italiani), l’impatto sfiora l’1,31% del Pil. È la conferma che le politiche pubbliche fanno la differenza tra costo e investimento.
Tuttavia, come evidenzia il report, i benefici non arrivano subito: nello scenario di status quo il saldo economico resta negativo per circa dieci anni, mentre solo dopo venti anni si trasforma in positivo. Le simulazioni mostrano inoltre che scenari di integrazione avanzata permettono di accelerare questo passaggio, ma richiedono un impegno finanziario iniziale più alto. Non tutti i Paesi sono in grado di affrontarlo: la sostenibilità dei conti pubblici e la disponibilità politica diventano quindi fattori decisivi.
Un altro aspetto interessante riguarda la distribuzione dei redditi: secondo Mediobanca, l’ingresso dei rifugiati non produce effetti significativi sull’indice di disuguaglianza, a patto che le politiche di inclusione siano efficaci. Inoltre, l’aumento dell’offerta di lavoro può esercitare una moderata pressione al ribasso sui salari, contribuendo a contenere i prezzi e a migliorare la competitività delle imprese. Ma anche qui le differenze tra Paesi contano: i modelli di integrazione dei Paesi nordici si dimostrano più capaci di trasformare la presenza dei rifugiati in risorsa produttiva, mentre quelli mediterranei, Italia compresa, restano più vulnerabili agli effetti di breve periodo.
Le esperienze internazionali: i modelli da cui imparare
Svezia, Canada e Paesi Bassi hanno dimostrato che un modello inclusivo, fondato su politiche di integrazione avanzate e investimenti mirati, può invertire la rotta demografica e rafforzare la produttività. Se tutti i Paesi europei adottassero strategie simili, l’indice di dipendenza demografica – cioè il rapporto tra la popolazione inattiva (bambini e anziani) e quella in età lavorativa, indicatore della sostenibilità economica dei sistemi di welfare – potrebbe ridursi fino al 18% entro il 2060, secondo le simulazioni del report Mediobanca.
Al contrario, modelli più restrittivi – come quello giapponese – basati su una forte selettività all’ingresso ma su bassi flussi migratori complessivi, si rivelano inefficaci per compensare il calo demografico. Il Giappone riesce ad attrarre lavoratori qualificati, ma in numero troppo esiguo per controbilanciare la riduzione della popolazione in età attiva. Questo insegna che non basta selezionare i migliori: serve anche un numero adeguato di ingressi per sostenere la crescita.
Un aspetto importante riguarda anche l’indice di dipendenza ponderato per produttività (cioè il rapporto tra anziani e popolazione attiva corretto per la produttività media dei lavoratori, così da valutare l’effettiva sostenibilità economica del sistema): un modello di integrazione avanzata non solo riequilibra il rapporto tra anziani e popolazione attiva, ma migliora anche la qualità media della forza lavoro, aumentando la competitività delle imprese.
Secondo Mediobanca, la combinazione dei modelli svedese e canadese rappresenta oggi la migliore opzione per l’Europa: integrare lavoratori in modo inclusivo e selettivo, puntando a qualifiche e competenze ma senza sacrificare i numeri. Per l’Italia, che parte da un indice di dipendenza di 1,44 (tra i più alti d’Europa), questa strategia potrebbe portare a un calo del 42% dell’indice di dipendenza entro il 2060. Un traguardo che, però, richiede visione di lungo periodo e politiche di integrazione capaci di trasformare i migranti da necessità demografica a risorsa economica strategica.
Il caso italiano: un mercato del lavoro a due velocità
In Italia il mercato del lavoro dei migranti è segnato da contraddizioni. Solo il 13% degli immigrati possiede un’istruzione universitaria (contro il 30% della media Ue). Tuttavia, la loro probabilità di trovare lavoro è più alta (differenziale di 2,3 punti rispetto ai lavoratori italiani contro l’8,6 europeo). Il problema è che gli immigrati si concentrano nei lavori meno qualificati: nel nostro Paese, solo il 14% dei migranti è impiegato nelle professioni più qualificate, contro una media Ue del 33% e punte oltre il 40% nei Paesi del Nord Europa. Questo spiega perché, in Italia, un aumento dell’1% dei migranti extra-Ue si traduce in una riduzione media della produttività dello 0,5%.
A complicare la situazione è la cosiddetta overeducation: anche i migranti con titoli di studio elevati spesso finiscono in lavori a bassa qualifica, alimentando frustrazione e riducendo la valorizzazione del capitale umano. Le imprese tendono a preferire questa forza lavoro a basso costo per contenere i salari, frenando investimenti in innovazione e formazione. Questo circolo vizioso limita le opportunità di carriera anche per i lavoratori italiani, che vedono ridursi le occasioni di avanzamento verso mansioni più qualificate. È una fotografia impietosa che richiama la necessità di riforme strutturali e investimenti in politiche attive del lavoro capaci di valorizzare le competenze dei migranti e sostenere la produttività complessiva del sistema.
La gestione dei flussi migratori è una delle sfide più rilevanti per le economie avanzate. L’Europa e l’Italia, in particolare, devono affrontare la questione non solo come emergenza sociale, ma come investimento strategico. Le evidenze economiche parlano chiaro: i migranti, se ben integrati, possono sostenere la crescita e la sostenibilità dei sistemi di welfare. Tuttavia, come ammonisce Mediobanca, «per ottenere tutti i benefici dell’integrazione dei rifugiati nel mercato del lavoro europeo, i Paesi ospitanti devono essere pronti ad accettare alcuni costi nel breve periodo». Una scelta non facile, ma inevitabile per un continente che invecchia e che ha bisogno di nuova linfa per restare competitivo. Una sfida che l’Italia non può più permettersi di rimandare.
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