
Pegah non è potuta partire per una gita scolastica a Londra. Kejsi ha compiuto 18 anni senza ricevere la tessera elettorale. Remon ha studiato in Italia ma rischia il rimpatrio perché non ha ancora un contratto. Pamela ha vinto il titolo italiano di pugilato, ma non ha potuto indossare la maglia della Nazionale.
Sono solo alcune delle conseguenze concrete che vive chi cresce in Italia, ma a cui la legge non riconosce ancora la cittadinanza. In vista del referendum dell’8 e 9 giugno, che al quesito 5 propone di ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza in Italia richiesti per ottenere la cittadinanza, quattro giovani raccontano cosa ha significato vivere per anni in un limbo. Le loro storie mostrano che a fare la differenza non è solo un numero, ma tutto quello che nel frattempo si perde.
Pegah Moshir Pour: «Dieci anni sono più di tutta l’infanzia»
Pegah Moshir Pour è arrivata in Italia dall’Iran nel 1999, da bambina, ma ha ottenuto la cittadinanza italiana solo nel 2012, a 22 anni. Oggi è una consulente e attivista per i diritti umani, una scelta di vita che ha avuto origine proprio da quella cittadinanza a lungo negata. Quando racconta la sua storia, insiste su una cosa: il tempo. «Cinque anni per ottenere la cittadinanza non sono pochi. Ma le persone vedono solo un numero, non lo considerano in termini concreti. Io ho vissuto l’attesa dei dieci anni. Dieci anni sono più di un ciclo scolastico intero. Significa passare tutte le elementari e tutte le medie in attesa di essere riconosciuta per quello che si è. E si tratta di anni cruciali: quelli in cui si forma un’identità, in cui ci si sente parte di un gruppo».
Secondo Pegah, quando si parla di cittadinanza e dell’iter più giusto per ottenerla, spesso si tende a guardare ai genitori, ignorando che sono i figli a crescere qui: magari i primi faticano ancora con l’italiano, ma i secondi parlano con l’accento del posto, vivono le stesse esperienze dei coetanei, si sentono pienamente parte della comunità. Una comunità di cui però, senza la cittadinanza, si scopre di non fare pienamente parte.
Per Pegah, il primo vero trauma arriva a 15 anni quando avrebbe dovuto partecipare a una gita scolastica a Londra, ma scopre di non poterlo fare: «I tempi per ottenere il visto dall’Iran erano troppo lunghi. In quel momento ho capito che non ero come gli altri». Sentirsi diversa ed esserlo anche per la legge è una condizione con cui Pegah, suo malgrado ha dovuto fare i conti per anni. La sua domanda di cittadinanza era stata presentata insieme a quella del padre, ma nel frattempo lei aveva compiuto 18 anni e la richiesta congiunta era decaduta. Ha perciò dovuto rifarla da sola e aspettare altri tre anni. Un tempo lunghissimo in cui da bambina è diventata ragazza e poi donna, sentendosi però sempre a metà.
«A 18 anni – ricorda – volevo essere autonoma, ma dovevo scegliere percorsi di studio e di carriera che non richiedessero la cittadinanza. Anche quando partecipavo attivamente alla vita pubblica, non avevo voce: ricordo le prime elezioni da maggiorenne, il referendum sull’acqua pubblica. Ero in piazza a dire agli altri di votare, ma io non potevo farlo».
Pegah rivendica un’identità complessa e composita: «Mi piace dire che noi siamo di terza cultura, un incontro tra quella di origine e quella in cui si cresce». Ma questa terza cultura spesso si confronta con una realtà burocratica che non sempre la riconosce. «Molti scappano dal proprio Paese senza documenti. Io sono stata fortunata perché i miei genitori avevano tutto in regola, ma basta un errore o una firma mancante per far saltare tutto. Così i dieci anni previsti dalla legge si allungano a dismisura. Fogli importanti per noi restano a prendere polvere in qualche ufficio, ma da quei fogli dipende la nostra vita».
Kejsi Hodo: «La politica? Posso farla, ma non votarla»
Kejsi Hodo ha lasciato l’Albania per l’Italia quando aveva dieci anni. Oggi ne ha 26 e solo nel 2024 ha potuto finalmente presentare domanda per ottenere la cittadinanza italiana. Ma il percorso, racconta, è stato tutt’altro che lineare. Non si tratta solo dei dieci anni di residenza previsti per legge: «In realtà – spiega – si tratta di almeno tredici anni, perché dalla presentazione della domanda passano almeno tre anni per ricevere una risposta, senza contare il tempo per ottenere i permessi di soggiorno. Così la cifra cresce a dismisura».
A complicare tutto c’è stata anche la burocrazia: «Nel mio caso – ricorda – ci sono stati errori nei documenti che hanno rallentato ogni passaggio. A mia madre, che era arrivata prima per lavoro, avevano sbagliato a scrivere il nome sul documento, e così ha dovuto ricominciare tutto da capo. Ai tempi non c’era internet: dovevi fare file chilometriche anche solo per capire a chi rivolgerti o pagare profumatamente un avvocato».
La mancanza della cittadinanza si è fatta sentire anche nella vita quotidiana. A diciotto anni, Kejsi ha vissuto uno dei momenti più duri: non ha ricevuto la tessera elettorale. «Ero già politicamente molto attiva – racconta – alle medie facevo parte del consiglio di quartiere dei ragazzi. Sentirsi esclusi significa sentirsi invisibili. In altri Paesi chi è nella mia situazione può almeno votare alle elezioni amministrative, qui invece no».
La carriera diplomatica, che sognava da sempre, si è infranta all’università. «Ho scoperto che non potevo partecipare ai concorsi pubblici – dice – e ho capito che quel diritto negato stava condizionando tutta la mia vita».
Oggi Kejsi è attivista, fa parte di Amnesty Bologna ed è vicepresidente dell’associazione “Dalla parte giusta della storia”, una delle realtà promotrici del referendum. Per lei, il voto dell’8 e 9 giugno rappresenta solo il primo passo verso una legge più giusta. Tra i principali difetti di quella attuale, secondo lei, c’è il requisito economico: «Chiedere un reddito minimo dimostrabile per almeno tre anni significa escludere chi studia, chi ha contratti precari, chi si sta costruendo un futuro».
C’è poi la questione della discrezionalità delle questure, un problema che Kejsi conosce bene. «Negli ultimi anni ho visto atteggiamenti sempre più rigidi – spiega – e un’enorme disomogeneità: cambia tutto in base alla città, all’ufficio, persino alla persona che prende in mano la tua pratica. Io non soddisfacevo pienamente il requisito economico, ma al Caf mi hanno detto: “di solito accettano anche il reddito del nucleo familiare”. Quel “di solito” mi mette un’ansia assurda, perché significa che non c’è certezza, sei in balìa dell’arbitrarietà».
Alla domanda su come dovrebbe cambiare la legge, Kejsi ha le idee chiare: «Per chi è nato in Italia dovrebbe valere lo ius eligendi, cioè il diritto di scegliere la cittadinanza al compimento della maggiore età. E dovrebbe esserci lo ius scholae, legato all’aver frequentato un ciclo scolastico in Italia. Ma soprattutto servono tempi certi e meno discrezionalità. Una legge giusta non può dipendere dalla fortuna».
Remon Karam: «Cosa devo fare ancora per essere considerato italiano?»
All’Egitto e alla sua famiglia Remon Karam pensa sempre con malinconia. È arrivato in Italia nel 2013, a soli 14 anni, per sottrarsi alle persecuzioni contro i cristiani copti. Dopo l’omicidio del cugino all’uscita di una chiesa al Cairo, ha deciso di partire da solo, senza informare la famiglia. Il viaggio verso l’Italia è stato un incubo: cinque giorni di prigionia ad Alessandria d’Egitto, un riscatto di 5mila euro richiesto alla famiglia, e poi una traversata di sette giorni su un barcone sovraffollato, con 180 persone a bordo. Durante il viaggio, ha dovuto sopravvivere con riso cotto in acqua salata e acqua contaminata con benzina. Sbarcato a Portopalo, in Sicilia, è stato accolto da una famiglia di Augusta, che lo ha trattato come un figlio. Grazie a loro, ha potuto studiare e laurearsi in Lingue e Comunicazione Interculturale ma il riconoscimento legale del suo percorso – la cittadinanza italiana – ancora non c’è. «Sono in Italia da 12 anni. Ho studiato qui, sto costruendo qui la mia vita. Ma senza cittadinanza tutto diventa più complicato. Ho vinto borse di studio, ho fatto attivismo, ho dato tutto quello che potevo dare. Eppure continuo a sentirmi sospeso».
Il vero ostacolo oggi è il requisito del reddito. Dopo la laurea, Remon ha iniziato uno stage nell’area marketing di una multinazionale, ma si tratta di un’esperienza con solo un rimborso spese, che non è sufficiente ai fini del calcolo per la domanda di cittadinanza. «Il mio stage finisce a breve, proprio quando scadrà anche il mio permesso di soggiorno per attesa occupazione. Se non mi assumono, rischio di essere rimpatriato in Egitto. E tutto questo solo perché il mio reddito non è ancora considerato sufficiente. Ma chi esce dall’università oggi ha davvero già un contratto a tempo indeterminato?».
Remon non ha parenti di primo grado in Italia che possano aiutarlo con una richiesta congiunta. Tutto dipende da lui. E la legge, dice, sembra ignorare proprio le storie come la sua: «Per chi, come me, ha deciso di investire negli studi, è quasi impossibile rispettare il requisito economico. Così, per inseguire la cittadinanza, molti sono costretti ad accettare lavori sottopagati, pur di accumulare un reddito formalmente valido. È una trappola. Io ho fatto tutto quello che mi è stato chiesto. Ma mi chiedo ogni giorno cosa manca ancora. In cosa consiste davvero il merito? Perché non basta vivere qui da oltre un decennio, studiare, lavorare, contribuire?».
Remon è una voce nota e ascoltata: racconta la sua storia nelle scuole e in pubblico, anche attraverso un libro scritto con la giornalista Francesca Barra, “Il mare nasconde le stelle”. Ma è anche la voce di molti altri che, come lui, restano esclusi da un diritto che dovrebbe essere il coronamento naturale di un percorso di vita in Italia.
Pamela Malvina Noutho Sawa: «Non è un regalo, è un diritto»
Per Pamela Malvina Noutho Sawa Bologna è diventata casa quando aveva 8 anni. Ha lasciato il Camerun grazie a un ricongiungimento familiare con il padre e nel capoluogo dell’Emilia-Romagna ha costruito tutta la sua vita. Si è laureata in Scienze infermieristiche e oggi lavora come infermiera al pronto soccorso dell’ospedale Maggiore. Una possibilità a cui ha potuto accedere grazie al fatto che, essendo entrata in Italia da bambina con un permesso di soggiorno per lungo soggiornanti, ha potuto partecipare al concorso pubblico.
Ma accanto al percorso professionale in corsia, Pamela ha coltivato un’altra passione: la boxe. Prima da dilettante, poi da professionista. Nel 2024 ha vinto il titolo europeo EBU Silver dei pesi leggeri e successivamente quello assoluto. Ma la sua carriera sportiva ha dovuto affrontare un limite invisibile, eppure decisivo: l’assenza della cittadinanza italiana. «Quando ho vinto gli Assoluti italiani ero convinta che mi avrebbero convocata in Nazionale. È la prassi. E invece è stata convocata la ragazza che avevo battuto. Quando ho chiesto perché, mi hanno detto che non essendo cittadina italiana non potevo indossare la maglia della Nazionale. È stato uno shock. Lì ho capito che nonostante i risultati, sarei rimasta una cittadina di serie B».
Così il passaggio al professionismo nella boxe non è stato solo una scelta sportiva, ma una necessità: «Come dilettante ero bloccata. Senza cittadinanza non potevo andare avanti. Da professionista, invece, ho potuto accedere ad altre competizioni e crescere. Se avessi avuto la cittadinanza prima, forse avrei potuto partecipare alle Olimpiadi dell’anno scorso. Ma preferisco non pensarci troppo: è una ferita ancora aperta, che fa troppo male».
Non è stato l’unico momento in cui Pamela ha toccato con mano la sua esclusione. Alle superiori non ha potuto partecipare alle gite scolastiche all’estero. All’università non ha potuto accedere al programma Erasmus. «Piccole grandi esperienze formative che sembrano scontate, ma che per me erano precluse. Come se ci fosse sempre un confine a cui dovevo fermarmi».
Un altro colpo è arrivato quando ha chiesto un mutuo per comprare casa: «Quando ho deciso di comprare casa, avevo tutto in regola: contratto a tempo indeterminato, risparmi, documenti. Ma in banca, dopo avermi fatto tutte le domande, mi hanno detto che non potevano concedere un mutuo a chi non era cittadino italiano. Come se potessi sparire da un momento all’altro. Ma dove dovrei andare? Ho tutta la mia vita qui, la mia famiglia, il mio lavoro. È stato come se mi togliessero un’altra possibilità di crescita. Non avere la cittadinanza è come avere un’etichetta».
Un’etichetta che Pamela ha portato addosso fino all’agosto 2022, quando finalmente ha ottenuto la cittadinanza dopo che la sua prima domanda era stata respinta dalla questura per la mancata presentazione del casellario giudiziario del Camerun, nonostante la legge non lo richieda per chi è arrivato in Italia prima dei 14 anni. «Ogni ufficio – spiega – fa a modo suo. Ma la legge dovrebbe essere uguale per tutti».
A chi definisce la cittadinanza concessa dopo cinque anni “un regalo”, Pamela risponde con fermezza: «Non ti sto chiedendo un regalo né un’elemosina. Ti sto chiedendo di riconoscermi un diritto che dovrebbe essere già mio. E che non toglie nulla a te».
Pegah, Kejsi, Remon e Pamela sono quattro tra centinaia di migliaia. La loro voce racconta molto più di una statistica. Se il referendum dell’8 e 9 giugno passerà, ottenere la cittadinanza richiederà cinque anni invece di dieci e forse nessuno perderà più una gita, un Erasmus, una convocazione, un lavoro. Ma soprattutto, nessuno dovrà più chiedersi se davvero ha diritto di sentirsi parte di un Paese che già chiama casa.
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