Tendenza a tagliarsi e ad altri comportamenti autolesionistici (quasi uno su due e in crescita negli ultimi anni), tendenza a isolarsi, uso di spinelli, alcol, istinti suicidi, violenza normalizzata. Mettere in fila i comportamenti indice di malessere degli adolescenti di oggi disegna un quadro allarmante. I numeri lo confermano e anche gli esperti. «In tutto il mondo, già prima della pandemia, i disturbi neuropsichici dell’infanzia e adolescenza – dice Stefania Manetti, presidente dell’Associazione culturale pediatri – sono aumentati con in parallelo una non sufficiente attenzione alla salute mentale e una carente risposta dei servizi sanitari, sociali e educativi». In Italia, prosegue, questo dato è confermato «nonostante nel nostro Paese il Sistema sanitario nazionale con la pediatria di cure primarie, l’inclusione scolastica per i bambini e le bambine con disabilità, e la presenza di servizi pubblici specifici, siano tutelati. La pandemia ha contribuito ad incrementare questi disturbi e parallelamente è aumentata la crescente difficoltà di accesso a percorsi diagnostici e terapeutici riabilitativi».
L’allarme è alto e lo confermano il successo e l’interesse suscitato dalla serie Netflix Adolescence che racconta la storia di un tredicenne accusato dell’uccisione di una coetanea. La serie mette a fuoco in maniera molto nitida le difficoltà degli adolescenti di oggi e il senso di impotenza di una generazione di genitori che non conosce chi siano realmente i loro figli, una volta superata la porta della loro stanza, una volta esclusi dalle password dei loro device, dalla loro vita online. Ma il malessere, pur in crescita, si può intercettare, e questo va fatto molto presto, prima di arrivare all’adolescenza. I pediatri, in questo scenario, possono avere fin dall’infanzia un ruolo essenziale, se hanno conquistato fin dall’inizio la fiducia dei loro piccoli assistiti e se dotati degli strumenti necessari.
Cruciale il 2013, anno di diffusione dello smartphone
Ma come si è arrivati alla situazione di disagio diffuso che vediamo oggi? «Il vero punto di svolta – spiega Stefano Vicari, che dirige l’Unità operativa complessa di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma – è stato il 2013. Quell’anno al pronto soccorso psichiatrico la media si attestava, coerente con il resto d’Italia, sulle 250 consulenze l’anno, meno di una al giorno. Ma da quell’anno è iniziata una crescita che ci ha portato all’alba della pandemia, nel 2019, a mille consulenze l’anno. Nel 2022 e 2023 abbiamo superato le 1850 consulenze annue, 5 al giorno, e di queste consulenze il 60% riguarda l’autolesionismo, fenomeno sostenuto da depressione e disturbi dell’umore, e anticamera del suicidio».
Nel 2013, continua Vicari, «ci fu il crollo dei prezzi degli smartphone. Le nuove dipendenze, le dipendenze comportamentali, vedono il telefonino tra i fattori di rischio principali. Noi paghiamo un così alto prezzo perché non educhiamo i bambini. È il regalo della prima comunione. I rapporti di Save the Children parlano di bimbi che a 6-7 anni passano già tante ore davanti ai device. Si toglie spazio alle attività ricreative, si aumenta la sedentarietà e si genera vera e propria dipendenza, con l’attivazione dei circuiti della ricompensa. Ne seguono comportamenti di craving, ricerca spasmodica; aggressività, quando viene tolto; chiari segni di vera dipendenza».
Colpevolizzare solo lo smartphone, tuttavia, non è neanche la strada migliore da seguire. Porre regole nell’uso delle tecnologie è giusto, ma non bisogna pensare che tutto il male per i ragazzi e il loro malessere nasca da lì, sarebbe semplicistico. Matteo Lancini, nel suo ultimo libro “Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti”, sottolinea le più ampie responsabilità del mondo degli adulti. «Non possiamo più ignorare – scrive – il fatto che il mondo che abbiamo creato per loro è estremamente complesso, che le esigenze evolutive di bambini e adolescenti sono cambiate e possono mettere in difficoltà adulti e istituzioni, che i modelli di identificazione educativi e relazionali che proponiamo loro ogni giorno puntano alla competizione e al successo personale, sottraendo la possibilità di esprimere – ed elaborare – le emozioni più scomode».
Quasi un ragazzo su due autolesionista, il ruolo dei pediatri
Una situazione già complessa, nella realtà on life dove reale e virtuale si confondono, che la pandemia ha aggravato. Se il fenomeno dell’autolesionismo si attestava a un 20%-30% prima della pandemia, ora siamo al 40%: quasi un ragazzo su due. Almeno il 10% dei bimbi e il 18% degli adolescenti ha un disturbo mentale: la malattia più diffusa in assoluto in questa fascia d’età. Molto più a rischio le femmine. «Il fenomeno – prosegue Vicari – va monitorato perché è il primo fattore di rischio per i tentati suicidi e il suicidio è la seconda causa di morte tra i 10 e i 25 anni. Diventa fondamentale che il pediatra indaghi, in un bambino oltre i 10 anni, se ha mai pensato di procurarsi la morte. Così come vanno cercati segni di autolesionismo. Serve una forte collaborazione con i pediatri, che a loro volta formino i genitori per promuovere la salute mentale e per capire quali sono i primi segnali di disagio e perché, allo stesso tempo, imparino a non fraintendere il concetto di privacy, e controllino regolarmente telefono, attività, comportamenti, frequentazioni e il corpo dei propri figli, fino alla loro maturità».
Aggiunge Nino Gulino, pediatra e membro associazione culturale Paidos di Catania: «Nell’intercettare i disturbi del neuro-sviluppo Il pediatra ha uno strumento squisitamente medico che è rappresentato dai bilanci di salute, ovvero dalle visite filtro che facciamo noi pediatri. Quelle più importanti sono quelle al 12esimo anno di età e, alla fine dell’assistenza pediatrica, al quattordicesimo. Sono due momenti in cui facciamo il punto. L’applicazione di questo strumento è, tuttavia, a macchia di leopardo».
Necessario partire da un rapporto di fiducia e intervenire subito
Il pediatra, sottolinea Magda Di Renzo, docente di psicologia e psicopatologia responsabile del servizio di Psicoterapia dell’infanzia e dell’adolescenza dell’Istituto di ortofonologia di Roma, «è una figura di riferimento fondamentale per la famiglia e può avere una funzione importante nell’intercettare il disagio degli adolescenti. Necessario presupposto è però che nel corso degli anni questa figura abbia instaurato un rapporto di fiducia sia con il ragazzo o la ragazza sia con la famiglia. Altrimenti non riesce a intercettare eventuali disagi e l’adolescente, di punto in bianco, non si aprirà certamente con il pediatra».
La chiave è quindi capitalizzare il grosso potenziale che il pediatra ha accumulato negli anni. «Bisogna intervenire da bambini, da adolescenti – avverte Isabella Salemi, pediatra di famiglia e membro dell’associazione Paidos – potrebbe essere già troppo tardi. Dopo numerosi anni di esperienza lavorativa non è difficile intercettare le famiglie problematiche fin dall’inizio e, se non si interviene subito, il bimbo porterà a vita i segni del disagio vissuto nei primi anni della sua esistenza. Questa è la vera sfida che si pone davanti al pediatra di famiglia, in una società dove nascono sempre meno bimbi e in cui un numero sempre più elevato ha disturbi della sfera neuropsichiatrica».
Nel caso in cui il pediatra noti una problematica di disagio può segnalare il problema alla neuropsichiatra infantile, coordinandosi con i genitori. Ma l’azione dei pediatri può avere successo solo se c’è il supporto e la collaborazione dei genitori, il sostegno della rete. In questi nuovi compiti, prosegue la pediatra Isabella Salemi, «non possiamo essere lasciati soli. Al momento tutto è lasciato alla nostra buona volontà, come ad esempio quando ricorriamo all’attivazione della nostra rete di amicizie e conoscenze in ambito neuropsichiatrico per aiutare i nostri pazienti. Chiediamo, quindi, agli organi competenti di organizzare una rete per salvaguardare e curare al meglio i piccoli, ricordando che sono i bambini di oggi che costruiranno la nostra società futura e renderanno, nel bene e nel male, quello che siamo riusciti a dare».
Consigli ai genitori, dare l’esempio
La serie Adolescence colpisce, tra gli altri aspetti, per l’assenza di un adulto (genitore, psicologo o insegnante che sia) in grado di comprendere le reali problematiche del minore, un adulto che sembra non conoscere abbastanza il minore tanto da poter rapportarsi con lui in maniera efficace. La mancanza di un adulto che ascolti davvero i bisogni del minore. Oggi, prosegue Di Renzo, «i genitori devono prestare attenzione, monitorare e controllare eventuali comportamenti preoccupanti del ragazzo. Ad esempio devono controllare come il ragazzo/a utilizza Internet, quali siti frequenta, quali videogiochi usa, non solo controllando per quanto tempo usa i mezzi tecnologici».
Per la psicoteraputa, bisogna inoltre «fare attenzione ad alcuni campanelli d’allarme, se ad esempio il ragazzo tende a stare troppo a casa, non ha amicizie. Un comportamento che inizialmente tranquillizza le famiglie che temono magari i pericoli che può incontrare fuori, ma che è molto preoccupante ed è indice di una tendenza a isolarsi». Il problema, aggiunge Gulino, è trasversale e riguarda anche realtà familiari che sarebbero teoricamente idonee a intercettarle: «le cause sono molte, la disgregazione familiare, la difficoltà dei genitori a mantenere il loro ruolo dicendo i famosi no che aiutano a crescere. E i genitori si aspettano che tutto questo lo faccia la scuola».
Prevenire facendo rete
In conclusione, la prevenzione del malessere degli adolescenti di oggi funzionerà solo se si parte dall’ascolto e si fa rete, evitando di scaricarsi a vicenda la responsabilità tra scuola, famiglia, pediatri e psicologi. «La prevenzione – conclude la presidente dell’Associazione culturale pediatri – è chiamata in gioco attraverso azioni mirate e multidisciplinari: mondo sanitario, educativo e sociale, ma anche associazioni territoriali, psicologi e tutto il mondo che ruota intorno all’infanzia, adolescenza e famiglie con forti azioni di coordinamento tra servizi». In particolare, secondo l’associazione, oggi ci vogliono sei tipi di intervento: sostegno della genitorialità e del neurosviluppo; coinvolgimento attivo e della partecipazione di bambine e bambini, ragazze e ragazzi; interventi per aumentare la consapevolezza di sé e delle emozioni; interventi per sviluppare contesti più inclusivi contro stigma, bullismo, esclusione; prevenzione e trattamento della disregolazione. E ultimo, ma oggi sempre più cruciale: sostegno dei genitori con figli adolescenti.
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