Afghanistan, mandato di arresto internazionale per i leader talebani

Kabul, Afghanistan, 22 March 2025 EPA/SAMIULLAH POPAL

Un procedimento senza precedenti. Per la prima volta, il procuratore generale della Corte Penale internazionale, Karim Khan, ha costruito un caso giudiziario incentrato sui crimini sistemici commessi contro le donne e le comunità Lgbtq+ in Afghanistan. Khan, infatti, ha emesso un mandato di arresto nei confronti del leader supremo dei talebani, Haibatullah Akhundzada, e del Capo della Giustizia dell’Afghanistan, Abdul Hakim Haqqani, accusati di persecuzione di genere per le politiche di segregazione messe in atto contro le donne e contro le comunità Lgbtq+. Di solito questo crimine è solo accessorio, un’aggiunta a un caso basato su altri crimini. Ora, invece, rappresenta la principale accusa.

Una vittoria (forse) solo simbolica

«L’annuncio del procuratore della Cpi è uno sviluppo importante che dà speranza, all’interno e all’esterno del Paese, alle donne e alle ragazze afgane così come a tutte le persone perseguitate a causa della loro identità o espressione di genere, come quelle appartenenti alla comunità Lgbtqia+» ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International, proseguendo: «È un momento importante per chiamare a rispondere tutti i presunti responsabili della privazione, per motivi di genere, dei diritti all’istruzione, alla libertà di movimento e di espressione, alla vita privata e familiare, all’integrità e all’autonomia dei corpi e alla libertà di associazione».

Una vittoria che, però, rischia di essere solo simbolica. Potrebbero non esserci, infatti, conseguenze immediate. È probabile che nessuno dei due uomini viaggi ovunque possa essere eseguito l’arresto, ovvero gli Stati che hanno firmato lo Statuto di Roma che ha istituito la Corte Penale Internazionale e che vincola questi Paesi all’obbligo di cooperazione giudiziaria. Lo stesso Akhundzada, ad esempio, lascia raramente la sua base a Kandahar.

Come siamo arrivati a questa decisione

In questi mesi qualcosa si è mosso nella comunità internazionale. Nel settembre del 2024, Paesi Bassi, Canada, Australia e Germania, seguiti successivamente da altre 20 nazioni, hanno annunciato la loro intenzione di deferire i Talebani presso il più alto tribunale delle Nazioni Unite, la Corte internazionale di giustizia, per le diffuse violazioni dei diritti umani contro le donne nel mancato rispetto della Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, di cui l’Afghanistan è firmatario. La procedura è ancora in corso.

Il 28 novembre scorso Messico, Costa Rica, Cile, Francia, Spagna, hanno esortato proprio il procuratore della Corte Penale Internazionale a indagare sulle violazioni sistematiche dei diritti delle donne da parte dei Talebani. Detto fatto. A fine gennaio, il procuratore Khan ha presentato le richieste di arresto per i i due talebani.

La situazione delle donne in Afghanistan oggi

(Photo by Atif ARYAN / AFP)

Niente lavoro, niente istruzione secondaria, spazi pubblici off limits. É questa la situazione in cui vivono oggi 20 milioni di donne in Afghanistan, che di fatto sono state cancellate dalla vita pubblica. Da quando sono tornati al potere nel 2021, i talebani hanno emesso oltre 80 decreti che violano i diritti fondamentali delle donne. Nel Paese alle ragazze non è permesso studiare dopo i 12 anni, neanche ostetricia. Di fatto, quindi, alle donne nel Paese non sono neanche garantite le cure sanitarie.

L’ultimo in ordine di tempo è il divieto di costruire le finestre che diano sulle stanze frequentemente utilizzate dalle donne, per garantire che non possano essere viste da uomini che non hanno legami di parentela con loro. A questo scopo, i nuovi edifici dovrebbero essere appositamente costruiti senza finestre in alcune stanze. Ma già prima era stato stabilito per legge il divieto per le donne di cantare, recitare o leggere ad alta voce in pubblico. E ancora: «niente più ginnastica nei parchi pubblici, tantomeno centri estetici. Uno degli ultimi decreti ristabilisce la lapidazione per le donne come sistema di punizione, come se tutto il resto non fosse già abbastanza…».

Tappare la bocca per tarpare le ali

Alia, nome di fantasia, è una giornalista radiofonica afghana di 26 anni. Quando i talebani erano alle porte di Kabul, lei era seduta davanti al suo microfono a commentare la loro avanzata inarrestabile. All’epoca aveva solo 22 anni e nei giorni successivi al ritorno al potere del gruppo, ha continuato coraggiosamente a parlare della situazione delle donne e della loro preoccupazione per il futuro. Una preoccupazione non infondata. Nel 2022, Alia è stata licenziata per il solo fatto di essere donna. «Non immaginavo che un giorno la mia voce sarebbe stata soffocata», ha raccontato al Guardian.

Dopo le iniziali dichiarazioni sulla volontà di rispettare le donne, i talebani non ci hanno messo molto a fare retromarcia, iniziando una repressione sistematica dei diritti delle donne e soprattutto delle giornaliste. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, infatti, tra agosto 2021 e settembre 2024, sono stati registrati 336 casi di tortura, arresti arbitrari e intimidazioni. Il 21 luglio scorso, invece, è entrato in vigore nella provincia di Helmand, il divieto di trasmettere le voci delle donne in programmi e spot pubblicitari trasmessi in radio.

A seguito di minacce e di chiusure forzate, i media afghani si sono notevolmente ridotti negli ultimi 3 anni. Prima del ritorno dei talebani, in Afghanistan erano attivi circa 543 media tra giornali e radio che impiegavano 10.790 lavoratori. A novembre 2021, il 43% di questi risultavano chiusi, con solo 4.360 dipendenti rimasti a lavorare. Il dato peggiore riguarda la categoria femminile. Una recente stima della Federazione Internazionale dei Giornalisti ha registrato la presenza di solo 600 giornaliste attive in tutto l’ Afghanistan a marzo 2024, in calo rispetto alle 2.833 donne in servizio prima di agosto 2021.

Usaid e il pericolo per le donne afghane che studiano all’estero 

Secondo l’Ufficio dell’Ispettore Generale Speciale per la Ricostruzione dell’Afghanistan (l’agenzia incaricata dal Congresso americano di sorvegliare l’uso dei fondi statunitensi), dal ritiro degli americani da Kabul nel 2021 Washington ha stanziato 21 miliardi di dollari, circa 20,56 miliardi di euro, in assistenza al paese e ai rifugiati afgani.

La decisione del neopresidente Usa Donald Trump di smantellare Usaid, l’Agenzia per lo sviluppo internazionale statunitense, è stato un vero terremoto nel mondo della cooperazione. Congedo forzato per la maggior parte dei dipendenti dell’agenzia, licenziamento per altri e stop ai fondi che finanziavano moltissimi programmi di cooperazione e assistenza in tante parti del mondo. Una di queste è proprio l’Afghanistan, dove Usaid, tra le altre cose, finanziava borse di studio di studenti e studentesse afghane all’estero. Proprio queste ultime hanno lanciato un grido di allarme sul loro destino.

Il caso più eclatante è quello di 80 donne afghane che studiano in Oman nell’ambito del Women’s Scholarship Endowment, un programma USAID avviato nel 2018. Le studentesse hanno dichiarato di aver ricevuto il 28 febbraio scorso una email che le informava del congelamento delle borse di studio finanziate dagli Stati Uniti. Un portavoce del Dipartimento di Stato americano ha recentemente dichiarato alla BBC che i finanziamenti proseguiranno fino al 30 gennaio 2025, ma il rischio per loro di essere costrette a tornare nell’ Afghanistan dei talebani, rimane.

L’imprenditoria afghana si tinge di rosa

Le donne afghane però non sono sole. Recentemente, OTB Foundation, organizzazione no profit, ha lanciato il progetto Brave Business in a Bus, ideato da Selene Biffi, fondatrice di  She Works for Peace, che da oltre 15 anni si occupa di progetti legati all’istruzione e alla creazione di impiego per donne e giovani in Afghanistan.

February 12, 2025, Kabul (Photo by Wakil KOHSAR / AFP)

Brave Business in a Bus sostiene l’imprenditoria e l’emancipazione femminile. L’iniziativa, infatti, consente alle donne afghane che lavorano da casa di avere accesso ad un programma di formazione completo, che comprende sia l’insegnamento pratico che la possibilità di usufruire gratuitamente di strumenti essenziali per la gestione di un’impresa, dando loro formazione, assistenza tecnica e accesso a piccoli macchinari.

«In un contesto dove le opportunità di impiego sono altamente ridotte e al momento collegate a limitate aree quali l’istruzione primaria, la salute e l’imprenditoria a livello domestico, una delle poche possibilità è avviare piccole attività produttive da casa», ha dichiarato Arianna Alessi, vicepresidente di OTB Foundation

Brave Business in a Bus in solo 6 mesi dovrebbe assistere oltre 1000 micro-imprese femminili nei quartieri più poveri di Kabul, offrendo, ad esempio, corsi su marketing, contabilità, sviluppo del prodotto e gestione delle vendite. Le donne partecipanti – molte delle quali madri, vedove o caregiver di persone disabili – riceveranno assistenza diretta che permetterà loro di acquisire competenze pratiche che migliorano la gestione delle loro attività. Una luce di speranza per le donne afghane.

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