Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Sabrina Prioli, di cui avevamo raccontato qui la storia. Sabrina, cooperante sociologa aquilana, nel 2016 si trovava in Sud Sudan per un progetto di pacificazione quando ha subito lo stupro da parte dei soldati dell’esercito nel bel mezzo di una guerra civile. Da allora, ha lottato perché le violenze fossero riconosciute e risarcite. E la sua lotta non è ancora terminata.
Cara Alley
Sono Sabrina Prioli, e questa è la mia storia.
Sono sopravvissuta alla tortura e a multiple violenze sessuali. Sono una donna che ha conosciuto il dolore più profondo, ma che ha trovato la forza di rialzarsi e di combattere. Ho raccontato la mia storia nei miei libri *Il viaggio della fenice* e *Non finisce mai*, perché nessuno dovrebbe subire ciò che ho vissuto io, e perché la mia voce possa essere d’aiuto ad altre vittime.
Ma se pensavo che la parte più dura fosse sopravvivere a quell’orrore, mi sbagliavo. Perché oggi mi trovo a lottare contro un’altra forma di violenza: quella dell’indifferenza dello Stato, della giustizia che non arriva, della burocrazia che soffoca ogni speranza.
Nel luglio 2021, con i miei avvocati, ho presentato una richiesta di elargizione come vittima di terrorismo. Un diritto previsto dalla legge, un riconoscimento dovuto a chi, come me, ha subito violenze inimmaginabili.
Dopo più di un anno di attesa, nell’ottobre 2022, il ministero dell’Interno ha rigettato la mia richiesta. I miei avvocati hanno immediatamente trasmesso le osservazioni al preavviso di rigetto, cercando di far valere le mie ragioni. Tuttavia, il 6 dicembre 2022, come un amaro regalo di Natale, il ministero ha confermato il rigetto definitivo della mia domanda di indennizzo,
Non mi sono arresa. Ho deciso di andare avanti, di lottare ancora. Il 6 febbraio 2023 i miei legali hanno presentato un ricorso contro il ministero dell’Interno, chiedendo le prestazioni di assistenza obbligatoria previste per le vittime di terrorismo. Viene presentata anche una perizia medico legale dove si attesta una invalidità al 91%.
Pensavo che finalmente la mia voce sarebbe stata ascoltata. Ma mi sbagliavo di nuovo.
La mia prima udienza è stata fissata per il 19 settembre 2023. Quando finalmente sembrava che qualcosa si muovesse, ecco il primo ostacolo: rinviata dal giudice del lavoro a settembre 2024. Un anno di attesa. Un anno in cui continuo a lottare con il mio dolore, mentre lo Stato sceglie di voltarsi dall’altra parte.
Poi arriva un altro colpo. Un secondo giudice del lavoro decide di rinviare ancora, questa volta a luglio 2025.
Il 2 ottobre 2025 gli avvocati il inviano l’istanza di anticipazione della trattazione della causa che,
il 17 gennaio 2025 viene rigettata.
Mi chiedo: quanto ancora dovrò aspettare? Quanto ancora dovrò sopportare?
Io, che sono sopravvissuta all’inferno, oggi mi trovo ad affrontare un’altra ingiustizia. La giustizia che non arriva, che si perde nei meandri della burocrazia, che si dimentica delle vittime. Non sto chiedendo pietà. Sto chiedendo ciò che mi spetta. Sto chiedendo giustizia. Sto chiedendo dignità.
E non lo faccio solo per me. Lo faccio per tutte le vittime che si sentono abbandonate, per tutte le donne che non vogliono più essere invisibili. Perché l’ingiustizia più grande non è solo quella subita, ma quella che continua ad essere perpetrata ogni giorno da uno Stato che dovrebbe proteggere, e invece tradisce.
Io non mi fermerò. Continuerò a denunciare, a combattere, a chiedere che questa vergogna
finisca. Perché la giustizia non può essere rimandata all’infinito.
E io non resterò in silenzio.
Sabrina
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