La storia recente dell’alpinismo femminile è testimone di imprese realizzate da donne diventate fonti di ispirazione e cambiamento. Nel maggio del 1974, per esempio, Naoko Nakaseko, Masako Uchida e Meiko Mori furono le prime giapponesi a conquistare il Manaslu (8163 metri), ottava vetta più alta del mondo. Nello stesso anno, un’altra giapponese, Junko Tabei, fu la prima a raggiungere la cima dell’Everest e a realizzare, nel 1981, la prima ascensione femminile dello Shisha Pangma. Nel febbraio del 1993, invece, l’alpinista svizzera Marianne Chapuisat fu la prima donna a conquistare un ottomila in inverno, il Cho Oyu – sesta montagna più alta del mondo tra Cina e Nepal – all’età di 24 anni e senza l’utilizzo di ossigeno supplementare. Nel 2018, invece, la geologa Jeanette McGill è stata la prima donna sudafricana a scalare il Manaslu.
Donne in vetta
La montagna non fa distinzione tra uomini e donne. È il “patriarcato delle vette” ad aver obbligato gli uomini a competere. Per le donne, invece, l’alpinismo è stata, ed è, una spinta ad eccellere. Non si tratta tanto un fatto di competenze e sicurezza nelle proprie capacità fisiche e tecniche (per moltissimi anni le donne sono state considerate totalmente inadatte all’alpinismo, per poi rivelarsi alla pari degli uomini) quanto più di raggiungere una delle più grandi forme di conquista di una parità che dovrebbe essere la regola e che invece, ancora oggi, fa fatica ad essere accettata.
L’italiana Nives Meroi, tra le più importanti alpiniste donne della storia che ha scalato tutti i 14 “ottomila” senza l’uso di ossigeno, si espresse qualche anno fa – senza giri di parole – sul divario di genere nell’alpinismo: “L’Himalaya era il terreno dell’ultima epica maschile, abbiamo tolto loro anche quello. Non possiamo rischiare di diventare le brutte copie degli uomini perché noi abbiamo qualità diverse. Dobbiamo dunque diventare capaci di esprimerle e farle vivere. Raggiunto questo obiettivo non saremo più schiave di regole e definizioni né ci sentiremo in dovere di imitare nessuno”.
Silvia Metzeltin, geologa, ricercatrice, scrittrice e alpinista italiana tra le prime donne a diventare membro del Club alpino accademico italiano, ha sempre sostenuto una tesi diversa: “In un certo senso mi disturbano le proposte di parlare di alpinismo femminile, come se la gabbia della categoria fosse eterna. Mi disturbano perché provengono dal mondo maschile che ne cavalca l’attrazione generica per il femminile, e perché alle donne interessa ben poco”.
Ecco perché oggi, dopo più di dieci anni da queste dichiarazioni, assume ancora più significato la spedizione scientifica alla conquista della vetta del K2 formata da una cordata di 9 donne (5 italiane e 4 pakistane) in programma tra giugno e luglio prossimi. L’occasione è data dalla celebrazione dei 70 anni dall’ascesa italiana del 1954 guidata da Ardito Desio, un anniversario che il Cai (Club alpino italiano) vuole celebrare con la stessa meta ma con uno spirito di formazione, ricerca, promozione e condivisione di valori culturali e sociali differenti.
Il 15 giugno la partenza per il Pakistan
Fino al 1982, solo 17 uomini avevano scalato la seconda vetta più alta del mondo dopo l’Everest. Mai nessuna donna ci aveva provato. La prima fu la polacca Wanda Rutkiewicz, leader di un gruppo di donne rivoluzionarie ma sfortunate. La spedizione, infatti, toccò quota 7100 metri prima di concludersi dopo 69 giorni a causa di condizioni meteorologiche avverse che ne impedirono il proseguo. La conquista della vetta (8611 metri) arrivò quattro anni dopo, nel 1986, scalando con successo la via dello Sperone Abruzzi. In realtà, dunque, quella che partirà il prossimo 15 giugno per il Pakistan non sarà la prima volta tutta al femminile. Ma il fatto che la K2-70 sia formata da una cordata italo-pakistana di sole donne, rende la spedizione un’opportunità unica per la ricerca scientifica nel campo della fisiologia femminile.
Federica Mingolla, Silvia Loreggian, Anna Torretta, Cristina Piolini, Samina Baig, Amina Bano, Nadeema Sahar, Samana Rahim e il medico Lorenza Pratali, arriveranno al campo base il 29 giugno dove cominceranno le attività alpinistiche e l’acclimatamento, per poi tentare la vetta nella seconda metà di luglio. Ad affiancarle ci sarà un team di medici, ricercatori e ricercatrici dell’Eurac Research di Bolzano (centro di ricerca d’eccellenza nel campo della medicina di montagna) che raccoglieranno una grande mole di dati sui parametri fisiologici delle alpiniste a quote estreme, fornendo un grande contributo in termini di letteratura scientifica che attualmente dispone di conoscenze limitate. A coordinare le alpiniste sarà Agostino Da Polenza, presidente di EvK2Cnr, associazione che si occupa di ricerca scientifica e tecnologica in alta e altissima quota.
L’obiettivo del progetto
Il progetto K2-70 è ufficialmente partito a marzo, con delle giornate di training sul Monte Bianco ed altre presso l’Eurac Research di Bolzano, dove le atlete si sono sottoposte a test cognitivi ed esami della funzione circolatoria e respiratoria, sia a riposo che sotto sforzo, anche con un grado di ipossia (bassi livelli di ossigeno) equivalente a quella del campo base del K2.
L’obiettivo è stato valutare l’impatto che l’organismo subirà durante l’ascensione e fornire consulenza medica alle alpiniste sia per l’acclimatamento che per l’allenamento. Tra le più esperte della spedizione c’è Anna Torretta, architetta, alpinista e guida alpina torinese: “Una spedizione così è un valore aggiunto molto importante. Da quando sono diventata guida alpina nel 2001, ho fondato la prima scuola di alpinismo femminile in Europa. Perché in un gruppo di sole donne si riescono a fare cose molto più importanti rispetto a un gruppo misto dove subentrano delle trappole mentali”.
A Federica, Silvia, Anna, Cristina, Samina, Amina, Nadeema, Samana e Lorenza, tocca ora il compito di scrivere un’altra pagina di storia dell’alpinismo femminile; con l’augurio di portare un grande contributo alla ricerca scientifica.
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