Burnout, come uscirne e tornare a vivere

 

Febbraio 2021. Lascio le chiavi alla vicina per annaffiare le piante. “Per quanto?” chiede lei. “Non lo so”. Sono incinta di qualche settimana del terzo figlio, ed esausta. Le scuole qui sono in apri-chiudi per la pandemia. Devo scappare. Non dormo da mesi. Pensavo di essere una tosta io, ho sempre lavorato in consulenza, immaginavo di sapere cosa significasse non “mollare mai”. Ma lì non ero io, era il mio corpo ad avermi mollata. Mi mancava l’aria e avevo paura di lasciare senza fiato anche la vita dentro di me. Quella piccola vita che stava piano piano crescendo dentro di me. Se non respiro io, se sono in apnea da troppo, le arriverà l’ossigeno?

È quasi notte. Direzione Sicilia. La pancia pesante, 3 valigie e i miei figli Alliya e Malik, di 3 e 1 anno, eccitati. Cerchiamo una casa in affitto online “vedremo per quanto”. La strada è lunga e nel viaggio un ricordo mi ossessiona: i miei bimbi, per troppo, soli – io continuamente incastrata in meeting durante il Covid per settimane, inerme davanti a loro, che chiedo troppo. Sono un’esperta di digitale, la soluzione di cui il mondo chiuso in casa ha bisogno per salvarsi. Essere l’esperta era il tuo sogno, no? Non puoi mollare proprio adesso. “Bambini, le mie riunioni sono importantissime. Vi chiedo un ultimo sforzo”. La casa è un delirio, nessuno ci può dare una mano. Mamma e papà sono in smart-work per ore, per ore infinite, settimane che si susseguono e non possiamo perdere il ritmo.

“No tesoro, non posso leggerti la storia, sono in riunione.” dico con tono severo a Malik. Poi lo guardo, ha gli occhi lucidi. E ripeto, ma cambio tono… “Ti prego Malik”. Mi guarda in lacrime mentre sua sorella abbassa gli occhi. “Mammina ti prego, solo questa storia”. Mi fermo, spengo le telecamere della riunione. Ho rimandato ogni loro bisogno, i loro giochi, le coccole, ogni piccola attenzione. Mi lacrimano gli occhi ma non so più piangere.

La pandemia mi ha tolto tutto, lasciandomi l’apnea dentro e lunghe notti insonni, con le mie lacrime, il senso di colpa e la follia che arriva. Ringrazio il mio compagno per avermi presa sul serio. Ringrazio me stessa per aver agito. E mia madre per avermi detto che quello andava chiamato con il suo nome: un burnout.

Burnout, la sfida universale del nostro tempo

Il 67% delle persone soffre di burn-out. Non solo durante il Covid, proprio oggi, in Italia, una persona su due lotta in silenzio contro i problemi legati al malessere mentale legato alla propria occupazione e il 70% è alle prese con stress e burnout. Burnout che si è diffuso perché ci sono così tante aspettative, per ognuno di noi, nel mondo del lavoro e fuori – in particolare per le donne, con una cultura dell’impegno costante e una tecnologia così invadente. Quell’equilibrio che cerchiamo tra lavoro e vita che di equilibrio non ha niente, quella mancanza di confini che ci esaurisce. Quella velocità. Quel confronto sociale continuo – che passa dai media, dai social ma anche da quello che noi conosciamo come esperienza di maternità: le nostre madri non erano così. Ci sembravano migliori, in fondo. E che effetti incredibili sulla nostra percezione di noi.

Quel burn-out per me è stato solo l’effetto. Quel burnout, in realtà, mi ha costretta a fermarmi e a guardare dentro di me. Quella “diversity” dentro di me che da sempre conosco, io che sono figlia di due continenti e di due visioni del mondo così lontane, io che ero mamma, donna e professionista ambiziosa, dovevo imparare a comprendermi, ad abbracciare queste differenze. Quel fermarmi per forza per fare entrare ossigeno, insieme alla natura per 6 mesi, al mare e ai monti della Sicilia, mi hanno restituita a me stessa. Potendo dare davvero vita a chi stava crescendo dentro di me. Così ho re-iniziato, dopo mesi, a respirare.

Quando ho recuperato le prime forze ho compreso che la mia esperienza era universale, così come universali erano le mie domande:

Come si gestiscono i bimbi quando si lavora a tempo pieno?

Come abbracciare la maternità senza che sia una rinuncia?

Come non sentirmi sola?

Pazza?

Ogni volta che una donna si alza per se stessa, si alza per tutti

Ho scelto di condividere queste domande con mille altre persone in rete perché volevo partecipare. Salvarmi! E salvare anche i miei figli, le future generazioni, da questa cultura.

Partecipare ha significato per me condividere sui social quel momento in cui mi sentivo sola e invisibile in riunione, perché non mi prendevano sul serio. E chiedere agli uomini di fare più attenzione.

Partecipare è stato raccontare il mio dolore fisico durante una trasferta, 10 giorni dopo il ritorno dalla maternità. Ero esausta, l’aereo atterrava tardi, dovevo allattare e mi faceva male “qui”. Sì, stavo per esplodere. Come era possibile che al lavoro mi avessero chiesto di fare quella trasferta? E trovare il coraggio di urlarlo perché non accada più a nessun’altra!

Partecipare è stato dire “basta” dopo 4 giorni di riunioni alle 20.30 con 4 colleghi. Ma davvero non vedevano che Alliya, Malik e Jamelia erano a tavola a mangiare? Davvero per 4 giorni di seguito non si riusciva a fare la riunione in un altro momento? Partecipare è stato dire basta per me, ma anche per loro: erano padri in ufficio e non era forse ora, anche per loro, di andare a casa?

Per partecipare ho dovuto iniziare a ricordare quel professore che, durante un’orale all’Università, soli nella stanza, cominciò a toccarmi i capelli… invece di farmi le domande d’esame. Comprendere quel dolore nel sentirmi così piccola. Partecipare è stato parlarne, per non sentirmi per sempre sporca. E scrivere del #metoo, ricordare una chat in cui si usavano al lavoro, anni dopo, parole e toni indicibilmente sessisti.

Partecipare è stato rispondere a una ragazza che mi chiedeva un consiglio su Linkedin perché non sapeva se la richiesta del suo manager fosse normale: dovevano condividere la stessa stanza in trasferta per “politiche di riduzione dei costi”. E dirle che no, no stellina, per nessun motivo!

Partecipare è stato pretendere un vero congedo di paternità obbligatoria. Perché le teorie delle differenze biologiche sono un alibi. E urlare al mondo che non è giusto che 43% delle donne siano inattive e guadagnino 13% in meno. E spiegare a mia figlia che certi lavori sì, si declinano al femminile e sono anche per lei!

Per partecipare ho voluto dare la mia voce per la campagna sul color carne, come recita il dizionario, quel “beige – rosa, simile al colore della carne umana». Ma no, la carne umana non ha solo quel colore! Così ho voluto urlare la mia gioia nel vedere la definizione del dizionario cambiare, perché l’umanità ha “mille tonalità”! La stessa gioia, nel potermi emozionare, nel vedere il trailer Disney della Piccola Sirenetta in versione “black” con le mie figlie!

Partecipare è stato portare i miei bimbi a una manifestazione LGBTQIA+. E andarci vestiti da super-eroi perché loro me lo chiedevano e io ho pensato “Perché no…” in fondo quante migliaia di altri super-eroi avremmo incontrato a quella manifestazione!

Rinata, per prenderlo come impegno di vita

Nei due anni successivi mi sono rimessa in gioco, trasformando la mia passione per l’innovazione e la tecnologia in un impegno per la “Sostenibilità per tutti oggi, e per le future generazioni”. Ho capito che la partecipazione vive dei movimenti feroci e dolci che abbiamo dentro, delle storie delle principesse che riscriveremo tutti. E dell’emozione che ci sale ogni volta che una nuova legge o policy per la parità vengono approvate.

Oggi sono qui a condividere un pezzo di storia con voi perché sono passati 3 anni e le cose sono cambiate così tanto. Sono qui a condividere questo pezzo di storia perché i pezzi di storia di altri sono stati importanti per me, mi hanno aiutato a non sentirmi sola, a credere che tornare in vita fosse possibile. A Marzo 2021 ho iniziato a rinascere e negli anni successivi mi sono sentita così tanto Viva! Ognuno di noi possiede il potere di cambiare qualcosa, di non arrendersi, di guardare al futuro con più amore per il mondo e per noi stessi. Sono grata per la consapevolezza che ho acquisito grazie alle lacrime, agli amici, alla rete, all’Italia e al mondo del lavoro che sta cambiando in cui sempre di più possiamo parlarne, al mio compagno e ai miei figli. Con la gentilezza, la gentilezza degli altri e con me stessa, sono rinata.

Sono Aram Mbow, italo-senegalese, a Milano da quando ho 18 anni, arrivata con mille sogni nel cassetto. E sì, in questa Italia meravigliosa, io sono una privilegiata perché ne ho realizzati moltissimi.

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  • Maria Laura |

    Grandissima Aramina!!! Una testimonianza che aiuterà tantissime donne ad essere capite e a tante imprese a cambiare

  • Maria Laura |

    Stupenda testimonianza

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