Giorgia Bellini, “nata due volte” dopo la bulimia

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«Eliminavo i carboidrati, i grassi, contavo le calorie. Riuscivo ad avere controllo sul cibo e mi sentivo felice, realizzata, sicura di me. Poi, è scoppiato l’inferno». Giorgia Bellini all’epoca aveva 13 anni, oggi ne ha 24. Per 8 anni ha vissuto nel vortice della bulimia.

È passata per la luna di miele, la fase iniziale che, come spiegano gli esperti, serve ai disturbi del comportamento alimentare (DCA) ad attaccarsi alla mente dei loro pazienti per far sì che scatti l’innamoramento. Salvo poi, trasformarsi in ossessione e, di conseguenza, autodistruzione. A 14 anni Giorgia era già avvezza alle abbuffate. A 17 vomitava anche 7 volte al giorno. Ad accorgersene fu sua nonna: «Questa ragazza è bulimica», disse. Giorgia non aveva mai sentito parlare di quella malattia. «A scuola non ci hanno mai spiegato cosa sono i disturbi del comportamento alimentare. Ho cercato su internet e mi sono accorta che mia nonna aveva ragione. Ho provato a parlarne con i miei genitori, ma pensavano che stessi esagerando»  ricorda Giorgia. Così, il suo tunnel è andato avanti ed è diventato sempre più scuro.

Il cibo: possederlo, rifiutarlo, ingozzarsi e rigettarlo. Ogni momento della sua vita girava intorno a questo preciso rituale. «Eppure – assicura – ero normopeso. Forse anche per questo nessuno mi prendeva troppo sul serio». Per questo, Giorgia decide di fare sul serio da sola. A 18 anni tenta il suicidio per la prima volta, non l’ultima. Si fa prendere dal panico per ciò che ha fatto e lancia l’allarme ai suoi genitori. L’emergenza rientra e per un attimo Giorgia non si sente più invisibile. Pensano di potercela fare da soli, con il supporto di un ambulatorio una volta a settimana. «Troppo poco: i DCA non passano in qualche mese, nei casi più gravi, come il mio, hanno bisogno di assistenza cosante» chiarisce. Le cose, infatti, anziché migliorare, peggiorano ulteriormente. Un altro tentativo di suicidio, una lettera trovata prima del tempo dai genitori, la corsa in ospedale e, alla fine, la clinica per il trattamento dei DCA.

«È qui che inizio a rinascere. Ricordo ancora il primo giorno, ora di pranzo: un piatto di pasta. Avevo evitato i carboidrati per anni e ora, eccomi lì, faccia a faccia con i miei demoni. Ma ho capito ben presto che il cibo non c’entrava nulla con il mio malessere. Il dolore, l’angoscia, la paura che provavo veniva da qualcosa di molto più profondo. Così, ho scelto di fidarmi degli esperti e quella pasta l’ho mangiata tutta. Era buonissima» racconta Giorgia. In quel centro – a Todi – è stata ricoverata per 4 mesi e poi ha continuato il percorso a casa, sempre seguita dagli esperti. Oggi, dopo 3 anni e mezzo senza abbuffate, può dire di essere guarita, di sentirsi bene. Ne è fiera, moltissimo. E vuole essere d’aiuto a tante altre ragazze e ragazzi che come lei, entrano inconsapevolmente nella spirale dei DCA. Per questo ha aperto un profilo Instagram su cui condivide la sua esperienza, e ha scritto il libro “Nata due volte”, il tutto mentre e sta realizzando un progetto con degli esperti per aiutare chi soffre di disturbi alimentari.

I disturbi alimentari in numeri

La situazione di Giorgia è, infatti, fin troppo comune: secondo gli ultimi dati dell’Istituto Superiore di Sanità, ne soffrono almeno 3 milioni di persone e i DCA rappresentano la prima causa di morte fra gli adolescenti, dopo gli incidenti stradali. La pandemia ha aggravato ulteriormente la situazione: la Società Italiana per lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare stima infatti che negli ultimi due anni vi sia stato un incremento del 40% di nuovi casi e una crescita pari al 50% di richieste di prima visita per DCA.

Anoressia, bulimia e binge eating erano già in aumento prima di Covid-19, e non solo fra le ragazze, con casi sempre più precoci, anche al di sotto dei 12 anni, ma dopo l’emergenza sanitaria sono letteralmente esplosi. «Io stessa ho deciso di aprire la pagina Instagram perché ho avvertito un campanello d’allarme: in TV tutti parlavano di ricette, panificazione, assalto ai supermercati e ho pensato che in molte persone tutto questo avrebbe generato ansia, frustrazione, paura, acuendo problemi pregressi, magari silenziosi che, complici le chiusure, sarebbero esplosi»  conferma Giorgia.

image_50382337«Il confronto tra pari è uno strumento eccezionale: chi si ammala, spesso non se ne accorge o lo nega. Poter leggere o ascoltare la storia di qualcuno che ha già vissuto le stesse situazioni ed emozioni, fa sì che si generi una nuova consapevolezza. E questo aumenta le chance di guarire» spiga lo psicoterapeuta Lorenzo Montecchiani, uno dei professionisti che ha seguito Giorgia nel suo percorso di cura. Sì perché, guarire dai DCA è possibile. «Purché – continua l’esperto – si intervenga in tempo. La tempestività è fondamentale così come il lavoro in squadra. I DCA sono la punta di un iceberg molto più profondo, per questo psicologo e nutrizionista devono essere alleati. Al primo spetta il compito di rintracciare il senso di ciò che è accaduto e che ha portato al disturbo, al secondo la responsabilità di ricostruire il significato del sintomo alimentare, riallacciando i rapporti con il “cibo fobico”, il cibo temuto».

Pilastro fondamentale: la fiducia. Non si guarisce da soli. La fiducia consente di costruire un percorso e di evolvere a piccoli passi. Quando si può dire di avercela fatta? «Quando ciò che ci ha turbati lascia spazio ad altro, quando riusciamo a fare pace con noi stessi e ci apriamo a nuove relazioni, a nuovi progetti. Siamo guariti – conclude Montecchiani – quando smettiamo di lottare e lasciamo che la vita torni a scorrere, in tutta la sua straordinaria imprevedibilità».

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