Ci sono tre figure allo specchio magico: un’attrice veneziana, interprete di “Cuor”, spettacolo dedicato alle “impiraresse”, la regista, e Marisa Convento, una delle poche infilatrici di perle (le “impiraresse”, appunto) rimaste in laguna. “Quello specchio – racconta la regista ad Alley Oop – è un elemento che mi accompagna da anni, si sono riflesse tante persone. Posso chiamarla una rubrica: io sono qui e rappresento una testimonianza, un filo nella trama di Venezia, che non può scomparire”.
L’ impiraressa Marisa Convento è “artisan resident” di Bottega Cini dal 20 giugno 2020: un concept store in centro storico, punto di dialogo tra cultura e aziende, dove si è stabilita con il proprio laboratorio. E’ anche la vicepresidente del Comitato per la salvaguardia dell’arte delle perle di vetro veneziane, iscritta nel patrimonio culturale immateriale dell’Umanità (Unesco): un riconoscimento per trasmettere i saperi alle giovani generazioni.
La foto è stata scattata il 25 aprile, festa di San Marco, patrono di Venezia. “Cuor” è uno spettacolo interpretato dall’attrice Eleonora Fuser (la donna sulla sinistra della coppia), scritto e diretto dalla regista Sandra Mangini (quella sulla destra), venuto alla luce dalle parole di Rina, Clementina Cavalieri, nata nel 1914 a Venezia. Lavoratrice di perle, aiutante in un laboratorio di scialli, operaia dell’Arsenale di Venezia: un modo generoso e impulsivo di stare al mondo, un cuore libero. Un’impiraressa nata “dagli strati più bassi della società veneziana – come racconta Marisa – donna del popolo con una forza d’animo, che l’ha fatta diventare un’ icona del suo tempo”.
Da una bottega, una volta in calle della Mandola, Marisa Convento ha spostato il suo laboratorio a Bottega Cini, dove, dietro a un tavolino, impira perle, facendo come nel ‘700, ma con la possibilità di lavorare in un ambiente aperto al pubblico, la meraviglia come riserva interiore, spinta a involarsi con l’immaginazione. Le piace trasformare le conterie, perline minuscole infilate con aghi sottili, in collane, fiori, per adornarsi con tutti i colori. Marisa ha imparato da sola, accompagnata da un’impiraressa esperta, per lasciarsi poi guidare dalla creatività.
Il termine impiraressa, colei che infila, indica un mestiere nato dall’esigenza di agevolare la spedizione delle conterie, che venivano infilate su un filo in mazzi di misura stabilita, usando dei lunghi aghi sottili, in modo che le perline potessero essere impacchettate meglio. Esiste nella sua sola accezione al femminile. Le fasi di lavorazione delle perle erano eseguite da manodopera maschile, ma l’ultima fase della filatura, era di pertinenza esclusiva delle donne. Lavoravano a cottimo, a domicilio, e oltre che a Murano erano concentrate nelle aree più povere di Venezia, ovvero i sestieri di Castello e Cannaregio e alla Giudecca, zone di densità abitativa e degrado edilizio.
Nell’estate del 1872 le impiraresse scesero in campo: il 14 agosto 125 lavoranti in “perle a lume” inviarono una petizione al sindaco per chiedere un aumento delle retribuzioni, ma scriveva il Questore, a proposito di questi “lavoratori non appartenenti ad alcuna fabbrica, essendo pagato il lavoro non a prezzo fisso ma conforme alla finezza e alla quantità del medesimo riuscirà ben difficile di conseguire l’invocato miglioramento”.
“Il mio mestiere – spiega Marisa Convento ad Alley Oop – è curioso, perché si praticava solo a Venezia. L’intelaiatura delle conterie con i lunghi aghi già descritta da Grevembroch nel 1700 è una peculiarità unica, perché Venezia ha avuto per secoli il monopolio della produzione di perline. Era necessario infilarle per il trasporto, garantire che fossero tutte forate, avere un’unità di misura, un mazzo che serviva come scambio a mercanti, esploratori”. Per secoli, fino agli anni sessanta, la tecnica è stata patrimonio di ragazze e donne di tutte le età che si sorprendevano a infilare perle lungo le calli, sedute su una sedia con la sessola (scatola) carica di conterie sulle ginocchia. Ma dopo l’ ”acqua granda” del 1966, con lo spopolamento della città e l’evoluzione dei costumi e del ruolo femminile, l’arte delle impiraresse perse fedeli protettrici.
Un lavoro rimasto intatto miracolosamente attraverso le vicissitudini della Serenissima, l’Unità d’Italia, la fine della Repubblica, le due guerre. Ha avuto un momento di declino negli anni ‘80, quando Marisa ha scoperto l’arte, mentre il terziario delle signore che produceva le perline andava assottigliandosi, e “non serviva più infilare le conterie, perché non erano più fatte a Venezia, ma altrove, i mercati chiedevano altre merci. Rimaneva solo l’impiratura a scopo artistico, e io mi sono innamorata delle perle veneziane, un’arte che dovevo fare in modo non dovesse essere dimenticata”. Tra i clienti delle impiraresse, quando lavoravano per le grandi ditte che producevano conterie da distribuire agli esportatori, ci sono state soprattutto le colonie dell’Africa, America, Asia. “Adesso in tempi attuali – dice Marisa – i lavori sono gioielli per il mercato misto americano, australiano, e in quello europeo per i francesi, che amano quello che racconta, un saper fare e una grande riscoperta del commercio locale”.
Marisa Convento si è sempre data da fare per il mantenimento delle tradizioni. E’ stata premiata il 25 aprile del 2018, in occasione della Festa di San Marco, con la motivazione di essersi resa paladina e difensora delle tradizioni, in prima linea e “mettendoci la faccia anche per la campagna di Confartigianato dove, dicevo io sono Venezia, non una comparsa”. Secondo lei l’artigiano deve piacere, comunicare in un modo che sviluppi curiosità e desiderio nei confronti di quello che fa, non deve essere amato per forza . “Al giorno d’oggi non vendi perché fai compassione, ma puoi farlo ed essere più incisivo se piaci alla gente”. Marisa ha imparato le tecniche di un’arte che comprende tante lavorazioni, dalla molatura alla soffiatura, alla decorazione, alla tirature della canna e il lavoro della perla al lume, con l’intenzione di farla diventare attuale contemporanea, non farla morire. “Venezia ha bisogno di restare veneziana – conclude – E nonostante lo spopolamento, l’Aqua Granda del novembre 2020, e poi la pandemia che ha schiacciato l’intero pianeta, mi sembra sia occasione utile per darle una seconda chance, perché non vogliamo che la sua gloriosa storia dei 1600 anni finisca adesso”.
Marisa Convento è anche vicepresidente del Comitato per la Salvaguardia dell’Arte delle Perle di Vetro Veneziane, che dopo molto lavoro ha ottenuto la candidatura a dicembre del 2020 insieme all’associazione francese dei “Perliers d’Art de France”, appassionante percorso per iscrivere l’Arte delle Perle di Vetro nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale Immateriale dell’Umanità UNESCO. Del Comitato fa parte anche Alessia Fuga, che nell’isola di Murano ha il suo laboratorio e crea con il vetro, rifornendo Marisa. Lei è parte del gruppo che si sta occupando della bibliografia sulla lavorazione delle perle. La tecnica principale che utilizza è la lavorazione a lume, cioè quella nella quale si fondono delle bacchette di vetro al calore di una fiamma per dare nuova forma al materiale. Nel suo studio a Murano, affianca alla realizzazione di pezzi unici e serie limitate l’insegnamento di una raffinata arte.
“Una delle cose che mi affascina di questo lavoro – dice Alessia Fuga ad Alley Oop – è che rimane nella parte pratica una professione contemporanea. Mi sento la custode di un sapere, una storia del passato che non trova altro modo per rimanere vivo se non la trasmissione personale, orale. Si mantiene viva la rete sociale, che esiste dal passato, dai produttori di vetro che ci hanno insegnato l’arte, ma c’è anche un ponte di conoscenza con chi utilizza il vetro, le impirasesse un sistema di conoscenza e crescita reciproca oltre che economica”.
Della lavorazione a lume è cambiato solo il cannello, la fiamma, la tecnica è rimasta la stessa, e non ci sono testi scritti in lingua italiana. Per il Comitato Alessia si sta occupando della bibliografia sulla lavorazione delle perle: un lavoro che le permette di approfondire ricerche, ritrovare testi. “In italiano – spiega – esistono solo libri riguardanti la storia delle perle di vetro dal punto di vista del viaggio, testi che riguardano il tipo di commercio, e del ‘700/’800 quando venivano portate nelle colonie, e le perle di ritorno, quelle che i collezionisti hanno poi restituito a Venezia. Non c’è tanto sulla lavorazione contemporanea: un mio sogno nel cassetto è riuscire a creare il racconto sulla contemporaneità delle perle di vetro, in attesa di rivedere presto i turisti nell’isola di Murano”.
Dopo che il Covid ha messo alla prova una città e un settore vitale anche per il turismo, perché le artigiane del vetro sono mestieri, nodi intimi per conoscere il mondo.
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