“Dottoressa, dopo tanta fatica sono riuscita a chiedere a Giacomo di parlare un po’ di noi”. “Ah bene, e com’è andata?”. “No, poverino, mi ha detto che sta passando un momento di grande stress al lavoro, poi la madre non sta bene, perciò dice se possiamo rimandare il discorso a tra qualche tempo, mi chiede se ne possiamo parlare ad Aprile…”. “Ma Giulia, siamo a novembre!” “Sì lo so, ma d’altronde lo capisco, è affaticato, io posso aspettare…”
“Dottoressa, quando io e Antonio litighiamo, e succede spesso, lui mi dice delle cose irripetibili, mi insulta, mi umilia, a volte arriva anche alle mani… Però poi il giorno dopo piange, mi chiede scusa, mi dice che è tutta colpa sua, che io non lo merito, mi porta regali, mi racconta storie terribili della sua infanzia, e io non ce la faccio a resistere, senza di lui non potrei vivere e poi lui ha bisogno di me”.
Questi sono solo alcuni flash dei tanti colloqui che popolano la mia stanza di terapia, ma potrei citarne centinaia con lo stessa nota amara di fondo: confondere l’amore con qualcos’altro. Robin Norwood, psicoterapeuta e autrice del best-seller internazionale “Donne che amano troppo”, uscito per la prima volta nel 1970 e ormai diventato un classico, iniziava il suo libro con queste parole: “Quando per te amare significa soffrire, vuol dire che stai amando troppo”. Si rivolge alle donne ma può succedere anche agli uomini, e per “amare troppo” intende qualcosa che non ha a che fare con il sentimento autentico dell’amore, ma più con quella che negli anni ha ormai assunto caratteristiche di patologia definita “dipendenza affettiva”, e che si può tradurre in poche parole: con te non sono felice, anzi, per lo più la nostra relazione mi fa soffrire, non mi sento abbastanza amata/o, desiderata/o, considerata/o, rispettata/o, ma non posso lasciarti. Di fatto, un’auto-condanna all’infelicità.
E perché non posso lasciare? Perché c’è qualcosa di più forte di me che mi tiene legato, una voce interiore che mi ripete che le briciole mi bastano, e a volte mi convince pure che quelle briciole siano una pagnotta appena sfornata.
Certo, dietro ogni voce c’è una storia, la storia della vita di quella persona particolare che, per vari motivi, molto spesso legati alle relazioni vissute nella propria famiglia d’origine, non crede di meritare un rapporto realmente sano ed amorevole con un partner. A volte ne è più consapevole, altre meno, ma fondamentalmente è qualcuno concentrato più sui bisogni dell’altro che sui propri (che spesso considera di minor valore), e che passa la maggior parte del tempo a pensare ossessivamente a quali comportamenti adottare per diventare più “giusto” per il partner, così da poterlo finalmente indurre a ricambiare il suo “amore”.
Il senso enorme di angoscia che giunge al solo pensiero della separazione dall’altro e il terrore dell’abbandono, nonché la convinzione di non poter vivere senza il proprio compagno/a, nonostante con lui/lei si stia male, hanno facilitato l’accostamento della cosiddetta “dipendenza affettiva” alle dipendenze più “classiche”, quelle da sostanze: è come se ci si sentisse drogati di una relazione, con relativi sintomi ossessivi e compulsivi, che sono quelli che caratterizzano tutte le dipendenze (tradotto: penso continuamente alla mia “droga” e faccio di tutto per averla sempre disponibile), incluse delle manifestazioni assimilabili alle crisi di astinenza, nei casi più estremi.
Ovviamente ci sono diversi livelli di gravità rispetto a questa condizione: chi al mondo non ha mai sperimentato una relazione sbilanciata, con qualcuno che lo ricambiava “relativamente”? Ma ci sono persone che passano così una vita intera, cambiando anche continuamente partner ma vivendo sempre la stessa frustrazione di dover inseguire qualcuno che di fatto è emotivamente indisponibile, in un circolo vizioso che alimenta la bassa autostima e la sensazione di non essere degni. La sofferenza che ne deriva è tale che si può arrivare a gesti autodistruttivi anche gravi, o a non riuscire a liberarsi di partner magari molto violenti, mettendo in entrambi i casi a rischio la propria vita. E finalmente anche il DSM-5, il Manuale internazionale di diagnosi dei disturbi mentali utilizzato in tutto il mondo, nella sua ultima versione riconosce la problematica e inserisce la dipendenza affettiva tra le “New addiction”, ovvero tra i “Disturbi non correlati a sostanze”, segnalandone la potenziale pericolosità (insieme alla dipendenza da Internet, dal gioco d’azzardo patologico, da sesso o da lavoro, le cosiddette dipendenze comportamentali).
Nei fatti, si tratta una condizione associata più al femminile che al maschile, e questo certamente per un mix di fattori, oltre a quelli psicologici ci sono anche quelli culturali di una società tipicamente patriarcale, che alla donna ha chiesto per secoli abnegazione, dedizione e sottomissione. Nell’immaginario comune infatti spesso la dipendenza affettiva viene inconsapevolmente definita “sindrome da crocerossina”, allocuzione con cui ci si riferisce a donne che si impelagano in relazioni di questo tipo con uomini che vorrebbero “salvare” da storie difficili, finché – in alcuni fortunati casi – arrivano a capire che l’unica persona che ognuno può salvare è soltanto se stesso.
E salvarsi è non solo possibile ma anche un sacrosanto diritto. Ci sono ormai molti strumenti che possono guidare e aiutare, dai gruppi di auto-aiuto dedicati al tema che risultano particolarmente efficaci nei trattamenti delle dipendenze, ai percorsi di psicoterapia dedicati alla riscoperta di sé. La strada, per le pazienti che vedo nel mio studio e per quelle conosciute negli anni di pratica, può essere lunga e tortuosa perché la via d’uscita non è solo liberarsi o meno da quella singola relazione, ma intraprendere un viaggio dentro di sé, per ritrovare quel diritto ad amare ed essere amati in maniera sana che appartiene a ogni essere umano.
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